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La Cina sta per papparsi la Fao (nel silenzio dell’Italia)

Nessun Dorma! Amava dire un presidente del Consiglio italiano. Sta per verificarsi, proprio a Roma, l’arrembaggio della Cina alla Fao nel silenzio della politica italiana rotto il 21 giugno alle 12 da un articolo di Laura Harth nel blog settimanale che l’Istituto Affari Internazionale (Iai) invia ai propri soci. Forse troppo tardi per fare qualche cosa, ma ancora in tempo per indignarsi e per iscrivere un nuovo fallimento della politica estera nella stagione del “governo del cambiamento”.

L’APPUNTAMENTO DI DOMANI

In breve, domani domenica 23 giugno, si tiene l’assemblea generale della Fao, Agenzia delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma, nei pressi delle Terme di Caracalla in bellissimi locali costruiti prima della seconda guerra mondiale per quello che allora sarebbe dovuto essere il Ministero dell’Africa Orientale Italiana. La Fao ha come compito quello di riunire tutte le nazioni del mondo per identificare pratiche e strumenti più adeguati per migliorare la produzione agricola, facilitare il commercio di beni alimentari, incrementare la sostenibilità.

IL NUOVO VERTICE FAO

Gli Stati membri dovranno eleggere il successore all’attuale direttore generale José Graziano da Silva, che si è potuto vantare del netto incremento in contributi che l’Agenzia riceve, portando il budget biennale per il 2018-2019 a 2,6 miliardi di dollari. Un posto quindi appetibile anche perché reca con sé una cospicua dote; il direttore generale ha poteri vastissimi nel come utilizzare il bilancio e nel nominare i dirigenti. Ho lavorato alla Fao per tre anni e ho contezza che tali poteri sono dittatoriali o quasi.

I CANDIDATI

Ad inizio marzo, erano cinque i candidati per la posizione: Davit Kirvalidze (Georgia), Qu Dongyu (Cina), Catherine Geslain-Lanéelle (Francia), Médi Moungui (Camerun) e Ramesh Chand (India). Sia il candidato camerunense che l’indiano si sono nel frattempo ritirati, il primo con una lettera personale, il secondo tramite comunicazione del Governo indiano il 13 giugno scorso. Secondo Le Monde, il ritiro del candidato africano sarebbe avvenuto dopo il pagamento di un debito camerunense di 70 milioni di dollari da parte di Pechino, debito contratto con la stessa Cina per lavori d’infrastruttura. Analoghi gli argomenti che hanno portato al ritiro del candidato indiano.
Ed prassi che non venga candidato un cittadino del Paese che ospita la sede (anche se tale prassi è stata a lungo rotta dalla Francia per l’Unesco che ha sede a Parigi e che per 13 anni è stata guidata da un francese scelto in quanto molto vicino all’Eliseo).

I GIOCHI SONO FATTI?

Tuttavia, il Paese ospitante ha voce in capitolo, soprattutto se – come avviene nel caso dell’Italia – oltre alla sede, offre cospicui contributi alle attività dell’Organizzazione. Eppure sino ad ora la vicenda si è svolta alla chetichella. Non si sa se il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Parlamentare o il Ministro delle Politiche Agricole ne abbiano trattato con le competenti Commissioni parlamentari. Per gli Stati Uniti il candidato migliore sarebbe il georgiano Kirvalidze: presentato come sostenitore del libero scambio e promotore di una riforma strutturale che deve affrontare i problemi di bilancio. Secondo fonti a lui vicine, Kirvalidze avrebbe “il sostegno di un gran numero di Paesi in via di sviluppo”. Inoltre, tradizionalmente, la guida dell’Agenzia va a un candidato di un Paese in via di sviluppo (l’uscente è un brasiliano naturalizzato italiano).
La candidata francese, Catherine Geslain-Lanéelle, già direttrice dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) di Parma e proposta in quanto candidata di tutta l’Unione ed anche dalla Commissione europea, potrebbe diventare la prima donna a capo della Fao.

SILENZI ITALIANI

L’Italia non ha espresso alcun entusiasmo. La campagna della Geslain-Lanéelle ha investito molto su Washington, chiedendo agli Stati Uniti di ritirare il sostegno al georgiano e impegnandosi a “non difendere necessariamente le posizioni europee sulla questione delle biotecnologie e degli Organismi geneticamente modificati (Ogm)”, come rivela una nota interna pubblicata dal Guardian. Catherine Geslain-Lanéelle ha dichiarato: “Non l’ho mai nascosto: non desidero diventare direttore generale della Fao per difendere gli interessi di uno Stato o di un gruppo di Stati. Non è mia intenzione monopolizzare l’Agenzia per interessi particolari. Non credo esista una soluzione sola: ci sono molte soluzioni, e ciò che conta per me è che questa organizzazione sia il luogo di dibattito su queste diverse soluzioni, a partire da fatti e scienza, nel rispetto della salute e dell’ambiente. Non dobbiamo necessariamente rendere applicabile al resto del mondo ciò che è stato fatto in Europa. Abbiamo molti esempi di modelli virtuosi sviluppati localmente e che dobbiamo aiutare a offrire una scala molto ampia. Ho avuto modo di conoscerla e di leggere suoi scritti. La considero qualificatissima ed è singolare che il Governo italiano non la sostenga con calore ed energia. Anche in quanto la FAO, nata a Roma sulla scia dell’Istituto Internazionale dell’Agricola dal mecenate americano David Lubin (la cui villa è ora sede del CNEL), non deve essere necessariamente appannaggio di un Paese in via sviluppo)”.

LA CANDIDATURA CINESE

Con la candidatura cinese di Qu Dongyu, attuale viceministro per l’Agricoltura e gli Affari rurali di Pechino, il dibattito che dovrebbe mettere al centro la lotta contro l’insicurezza alimentare “scivola chiaramente al secondo posto”, come si rammarica un alto funzionario occidentale della stessa Fao su Le Monde. La candidatura di Qu avviene infatti nel mezzo di una guerra commerciale serrata tra Stati Uniti e Cina, e del tentativo sempre più evidente da parte di Pechino di diventare un potere egemone non solo in Asia ma anche nel continente africano per mezzo della Via della Seta. mega-progetto infrastrutturale e di proiezione di influenza geopolitica del gigante asiatico.

Nella sua campagna, oltre al pagamento citato di un debito camerunense, Pechino avrebbe anche minacciato Paesi come il Brasile e l’Uruguay di porre un divieto sulle loro esportazioni agricole in caso di mancato voto a favore del candidato cinese. Metodi che in Italia una forza di governo (il Movimento 5 Stelle) dovrebbe censurare. Inoltre, il rappresentante degli Stati Uniti Kip Tom alla Fao in occasione dell’audizione dei candidati lo scorso aprile ha detto a Qu Dongyu: “L’inchiesta del tuo stesso governo sull’ex presidente dell’Interpol Meng Hongwei – come Lei vice-ministro -, ha rivelato che uno dei motivi per cui è stato arrestato – e cito il Suo ministro della Pubblica sicurezza – è che non ha assolutamente alcun diritto di prendere decisioni senza permesso delle sue autorità nazionali” in aperto contrasto con la Carta dell’Onu e con lo Statuto stesso della Fao. In effetti, se eletto, Qu Dongyu prenderà istruzioni dal Partito Comunista Cinese, come fanno i suoi omologhi piazzati da Pechino in varie organizzazioni internazionali.

Nessun dorma! Sono in ballo non solamente i cospicui contributi italiani, e di altri Stati, che verrebbe utilizzati per diffondere politiche agricole cinesi e per sostenere la cinesissima Via della Seta ma i principi di indipendenza delle Agenzie delle Nazioni Unite. Perché in Italia non se ne è parlato sino ad ora e tutto tace? C’è una lobby pro Pechino composta da un paio di esponenti della Lega e di numerosi parlamentari del M5S affascinati da quello che fu il Celeste Impero. E non si rendono conto che i cinesi li prendono sia per il naso sia per i fondelli.


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