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La voce italiana alla Nato. Le priorità del Paese nell’Alleanza

Di Karolina Muti e Alessandro Marrone

Di fronte ai dirompenti cambiamenti politici e tecnologici, nonché della natura stessa del potere sulla scena globale, le regole del gioco per la difesa e la sicurezza nello scacchiere internazionale stanno cambiando in maniera spiazzante. L’emergere di nuove potenze continentali come la Cina, ma anche di attori non-statali completamente nuovi come il gruppo Gafa (Google, Apple, Facebook, Amazon) capace di influire attraverso le proprie decisioni sulla vita di centinaia di milioni di persone, fanno parte di questo processo di globalizzazione e al tempo stesso frammentazione dell’ordine internazionale. Compiuti 70 anni, la Nato, la più longeva alleanza politico-militare del mondo, si può verosimilmente dire ben attrezzata per affrontare la tempesta. Ma può dirsi lo stesso dell’Italia? Il 70esimo anniversario della Nato è una buona occasione per fare il punto sul ruolo italiano al suo interno, ma anche e soprattutto sulle priorità che dovrebbero essere perseguite da Roma tramite la costruzione delle necessarie alleanze con gli altri Stati membri, la capacità propositiva e l’investimento di risorse adeguate.

DALLE DIMISSIONI ALLE CAPACITÀ, GLI INVESTIMENTI CHE SERVONO

Negli ultimi decenni, l’Italia si è ritagliata un suo ruolo all’interno dell’Alleanza atlantica. Ciò è stato possibile grazie all’attivismo italiano in particolar modo per quel che riguarda la partecipazione alle missioni internazionali sotto egida Nato. Tuttavia, negli ultimi anni quest’ultima ha ridotto il suo impegno nei vari teatri di crisi, concentrandosi maggiormente sulla difesa collettiva. Di fronte a uno scenario geopolitico in rapido mutamento, l’attivismo italiano nelle missioni all’estero non quindi è più sufficiente per contribuire agli obiettivi dell’Alleanza (e di Roma). In relazione a questo, sono due le questioni che rischiano di diventare una palla al piede per chi rappresenta l’Italia al tavolo atlantico: la stagnazione della spesa nella difesa e, all’interno di questa, i mancati investimenti in equipaggiamenti, ricerca tecnologica ed esercizio, soffocati dallo squilibrio verso la voce del personale. Su questi temi l’Italia rischia di ritrovarsi a fare il convitato di pietra, visto che tutti i principali players europei stanno dimostrando la capacità di rispondere all’insistente richiesta del presidente Usa Donald Trump di rispettare gli impegni presi dagli stessi governi europei nel 2014, in particolare sull’aumento della spesa per la difesa fino al 2% del Pil entro il 2024.

L’eccezione è proprio l’Italia che quest’anno vedrà calare ancora una volta la percentuale del Pil destinata alla difesa, in controtendenza con tutti i partner europei. Calo direttamente collegato al tema dei mancati investimenti. La distribuzione tra le varie voci della spesa è infatti sbilanciata verso il personale (60.6%), a scapito dei tanto necessari investimenti in equipaggiamenti e ricerca tecnologica (28.1%), ma soprattutto delle spese fondamentali per l’operatività della forze armate, dall’addestramento alla manutenzione dei mezzi (11.4%). Le conseguenze che ne derivano influiscono in negativo sulla capacità d’azione dell’Italia nello scacchiere internazionale e sul suo peso negoziale. Si tratta infatti di garantire la credibilità del Paese agli occhi dei propri alleati e competitors, ma anche di stare al passo con gli sviluppi tecnologici. Il primo rischio è quello di non assicurare l’interoperabilità con gli equipaggiamenti alleati, americani in primis, processo che escluderà dalle operazioni congiunte chi rimarrà indietro. Il secondo e crescente rischio, in una fase di riposizionamento della Nato dalle operazioni all’estero alla difesa collettiva dopo l’annessione russa della Crimea, è quello di non avere adeguate forze pesanti e high-tech adatte per scenari di conflitto ad alta intensità, da usare proprio in un’ottica di deterrenza per evitare che tali scenari si concretizzino.

OLTRE IL MEDITERRANEO, SICUREZZA CIBERNETICA E COOPERAZIONE NATO-UE

Investire risorse adeguate è condizione necessaria ma non sufficiente per una buona politica di difesa, se manca la definizione delle priorità e delle strategie per perseguirle anche in ambito Nato – tema al centro di un evento Iai a Roma il prossimo 13 giugno -. La stabilizzazione della regione del Mediterraneo, e in particolare della Libia, è ovviamente tra queste. La piena operatività raggiunta da quasi un anno dal Nato Strategic Direction South –Hub, ospitato presso le strutture del Joint Force Command di Napoli, potrebbe favorire questo obiettivo, se opportunamente sfruttato, portando sui tavoli alleati una maggiore consapevolezza di ciò che accade a sud del Mediterraneo e delle possibili opzioni per affrontare crisi e instabilità come quella libica. Allo stesso tempo, nell’agenda non dovrebbero mancare proposte relative ai grandi temi dell’Alleanza che vadano oltre il focus italiano sul Mediterraneo. Occorre fare reali passi in avanti sul piano della sicurezza e difesa cyber, anche per difendersi dal rischio di interferenze esterne nel processo elettorale e democratico in Italia e in Europa. Qui si tratta di pensare creativamente al valore aggiunto che le capacità di cyber warfare dei Paesi Nato, messe a fattore comune in ambito alleato, possano dare in un campo in cui sono i giganti tecnologici privati ad avere le chiavi di un web sempre più campo di battaglia per intelligence, disinformazione e propaganda.

Come terzo ma non ultimo punto, è nel pieno interesse dell’Italia far fruttare le recenti iniziative di cooperazione per la difesa europea nel quadro dello European Defence Fund (Edf) e della Permanent Structured Cooperation (Pesco), in un’ottica sinergica con la Nato. Quest’ultime vanno viste come un’occasione preziosa di sviluppare quelle tecnologie e capacità mancanti che l’Italia non potrebbe sostenere da sola, che però può essere colta solo stanziando gli investimenti nazionali richiesti per ottenere i cofinanziamenti Ue, assicurando al tempo stesso che l’attuazione dell’Edf colmi i gap militari più gravi e urgenti identificati a livello europeo. Malgrado le difficili relazioni con l’alleato a stelle e strisce, la partnership strategica per una più stretta cooperazione tra Nato e Ue è una delle tematiche sulle quali l’Italia potrebbe avanzare proposte concrete, a esempio per quel che riguarda le minacce ibride, la sicurezza e difesa cibernetica, o la parte di ricerca e sviluppo tecnologico. La regolarità dei contatti tra i Paesi appartenenti alle due istituzioni e tra i relativi staff internazionali in questa cornice potrebbe essere un’opportunità aggiuntiva per contribuire a dissipare le diffidenze reciproche. Del successo della partnership Nato-Ue, lanciata a Varsavia nel 2016 da una dichiarazione congiunta dei vertici dei due attori, beneficerebbe la sicurezza europea e la coesione tra tutti i Paesi coinvolti.

Al tavolo atlantico occorre inoltre evitare controproducenti ragionamenti a compartimenti stagni, favorendo una visione globale e comprensiva delle minacce. Cercare quindi di uscire dalla narrativa di opposizione tra fianco est e fianco sud, che vede gli alleati divisi tra Europa orientale e Europa meridionale e intenti a tirare una coperta che è sempre troppo corta. Le minacce si intersecano tra loro e temi come il terrorismo, l’interferenza della Russia nelle elezioni in Europa, i rischi e le minacce cibernetiche inclusa la massiccia diffusione di notizie false, sono problematiche che riguardano tutti gli alleati europei, particolarmente in un sistema internazionale al tempo stesso più globalizzato e più frammentato. Cercare un (seppur difficilissimo) compromesso per una strategia Nato condivisa su queste tematiche, con un focus forte ma niente affatto esclusivo sul Mediterraneo, dovrebbe essere la stella polare di un’agenda italiana in grado di incidere sul presente e sul futuro dell’Alleanza in linea con i propri interessi nazionali.

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