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Tra Hong Kong e la Cina c’è una crisi di fiducia. Parla lo storico Giovagnoli

A Hong Kong cresce la tensione per le maxi proteste di piazza, che tuttavia sembrano calare nelle ultime ore. I giovani denunciano la proposta di legge che facilita l’estradizione di sospetti come “liberticida”. In questa conversazione con Formiche.net abbiamo fatto il punto con lo storico Agostino Giovagnoli, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, esperto di storia dell’Italia repubblicana, dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica ma anche e soprattutto di relazioni internazionali, con sguardo rivolto in modo particolare alle dinamiche dell’estremo Oriente.

Professore, che sta succedendo?

Certamente le manifestazioni sono molto imponenti e non riguardano solo i giovani. Se più o meno un milione di persone ha manifestato, in una città che ha al massimo sette o otto milioni di abitanti, ci troviamo di fronte a qualcosa di importante e significativo. Io credo che ci sia un problema di fiducia. Cioè certamente c’è una questione specifica, quella dell’estradizione, che potrebbe rendere possibile una facile estradizione in Cina di persone di Hong Kong che si comportano secondo le regole di Hong Kong ma non gradite ai governanti di Pechino. Ma il sentimento di fondo è la crisi di fiducia.

Quale dovrebbe essere, a suo avviso, l’obiettivo della legge? Si tratta di coprire un vuoto legislativo, come sostiene Hong Kong, oppure è un tentativo della Cina di avere maggiore controllo su oppositori e dissidenti, compresi dirigenti di multinazionali, in un momento di guerra commerciale con gli Stati Uniti?

Certamente c’è un contesto geopolitico assolutamente determinante. Pechino non ha mai fatto mistero di considerare Hong Kong, Taiwan e Macao come parte di un’unica Cina. Questa è la politica che da sempre la Repubblica Popolare Cinese porta avanti. Su questo, in linea teorica, non c’è stata in passato una opposizione. Per esempio a Taiwan prevaleva il partito nazionalista del leader Chiang Kai-shek che condivideva l’idea che la Cina è una sola. E quando si è fatto l’accordo su Hong Kong prevedeva la formula di “un Paese e due sistemi”, quindi anche in quel caso vi è il principio che la Cina sia una sola. Però da oggi qualcosa è cambiato: c’è una fretta da parte di Pechino di “monetizzare” questa unità. E qui gioca moltissimo la tensione con gli Stati Uniti.

Quindi, di conseguenza, la questione dei dazi.

Da questo punto di vista la guerra dei dazi è un disastro, perché esaspera tutto. È una guerra commerciale ma che sta producendo effetti non solo commerciali, ma con scontri fisici. Dio non voglia che questo conduca a una guerra vera e propria. Siamo in una situazione pericolosissima per la pace internazionale, in cui c’è una specie di gara ad aumentare i motivi di attrito invece di attenuarli, e questo anche da parte degli Stati Uniti.

Per Washington la legge distrugge lo statuto speciale di Hong Kong. È d’accordo?

Io penso che non bisogna gettare legna sul fuoco. È chiaro che oggi c’è una opinione pubblica americana, quindi non solo il governo, che vuole alimentare lo scontro, e interviene su questa vicenda ma su cui non ha competenza, perché non riguarda in nessun modo gli Stati Uniti né i cittadini americani. Sarebbe un’interferenza nelle vicende di Hong Kong che risponde alla logica dello scontro tra Stati Uniti e Cina dove la vicenda dei dazi è la parte più evidente ma non l’unica. C’è chi vuole buttare legna sul fuoco.

Si è scritto che la protesta evidenzia anche i limiti di avere un Paese con diversi sistemi al proprio interno.

Fino ad ora quel sistema è stato possibile, quindi è la dimostrazione che si può fare. Dal ’97 ad oggi effettivamente è così, Hong Kong è unita alla Cina ma ha un sistema giuridico-economico differente. Bisogna permettere un’evoluzione pacifica di questa situazione, che consenta le aspettative, le speranze e i desideri della popolazione di Hong Kong e una collaborazione con la Cina che ormai è nei fatti. Dobbiamo poi ricordarci che, anche se non accadesse nulla, da qui al 2047 tutto questo finisce, perché così ha firmato Lord Patten, l’ultimo governatore inglese delegato a restituire la Cina dopo il dominio britannico. Quindi possiamo dire che gli occidentali hanno venduto Hong Kong alla Cina, e adesso piangono per quello che loro hanno fatto. Sono atteggiamenti contraddittori.

Dall’altro lato, Pechino accusa i soggetti della protesta di essere manovrati dall’esterno. Chi sono le persone che protestano? Si tratta di un movimento organizzato e coeso al suo interno?

No, io credo che sia un movimento sorprendentemente spontaneo, e molto radicato nella realtà di Hong Kong, quindi non credo che sia manovrato dall’esterno. Certo, c’è un tentativo di strumentalizzare la vicenda dall’esterno, cercando di usare Hong Kong non per il suo bene ma per la lotta verso un primato sulla Cina. Mentre invece le esigenze di Hong Kong andrebbero capite e rispettate, e non strumentalizzate. Bisognerebbe aiutare Pechino ad avere più rispetto di queste esigenze, anche negli interessi di Pechino stesso. Perché il conflitto tra Hong Kong e Pechino non fa bene a nessuno, nemmeno alla Repubblica Popolare Cinese. Io credo che tutti gli sforzi degli osservatori interessati alla pace e al bene di Hong Kong dovrebbero premere per un dialogo, perché si trovi una soluzione il più possibile soddisfacente per tutti.

Nell’ottica di trovare questa soluzione di pace, è pensabile un intervento, una dichiarazione, da parte di qualche esponente della Santa Sede, considerato anche l’accordo firmato di recente?

Credo che, nei termini di un intervento diplomatico, sia molto difficile. Non credo che oggi la Cina accetti da nessuno un intervento ufficiale su quella che considera una faccenda interna, visto che Hong Kong è un pezzo della Cina. Ma non c’è dubbio che il dialogo che si è sviluppato con la Santa Sede sia un dialogo che va nella direzione giusta, che è una direzione che rassicura il governo cinese e che fa comprendere come la diversità di posizione non significa necessariamente ostilità. Quindi, in qualche modo, la voce della Santa Sede è una voce che contribuisce molto ad attenuare la tensione internazionale, compresa quella tra Stati Uniti e Cina. E credo che il ruolo della Santa Sede sarà sicuramente positivo in questi giorni, e nei prossimi mesi, ma non mi aspetterei dei gesti formali e soprattutto ufficiali, che rischierebbero di spingere la Cina a un irrigidimento per salvare la faccia, la propria sovranità e indipendenza.

Nonostante le proteste Carrie Lam, la governatrice approvata dal Partito comunista di Pechino, ha assicurato che la legge sarà promulgata, visto che i deputati filocinesi sembrerebbero in maggioranza. Anche se per ora ne è stato sospeso l’esame. Cosa si prevede che succederà? E, infine, c’è il rischio di un’escalation delle proteste?

Il rischio di escalation purtroppo c’è. Quindi è tanto più importante che si agisca per scongiurarla, non per alimentarla. Detto questo, è molto difficile che Pechino faccia marcia indietro, che cioè la legge non venga approvata. Certo, sarebbe saggio da parte delle autorità di Pechino approvare questa legge ma magari, prima, modificarla, oppure non applicarla. Insomma ci sono tanti modi per tenere il punto ma poi sostanzialmente accogliere la sostanza di queste richieste, che, ripeto, sono praticamente della quasi totalità della popolazione di Hong Kong. Anche se il governo di Hong Kong è allineato sulle posizioni di Pechino, spero in un atto di saggezza dei governanti cinesi.

 

 

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