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Trump cerca la distensione con l’Iran (nonostante i falchi di Washington)

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Donald Trump sembrerebbe pronto ad adottare la linea morbida con Teheran. Nel corso di un’intervista su Good Morning Britain, il presidente americano ha dichiarato che “l’Iran è estremamente ostile” ed è “dietro il terrorismo in tanti luoghi diversi”, aggiungendo che “c’è sempre la chance” di un attacco militare. “Ma lo voglio io? No, io preferisco parlare”, ha chiosato, per poi concludere: “L’unica cosa che non vogliamo e che loro abbiamo armi nucleari“. Insomma, pur non trattandosi esattamente di un’apertura, l’inquilino della Casa Bianca è parso smorzare i toni minacciosi con cui una parte della sua amministrazione aveva trattato il dossier iraniano soprattutto nel corso delle ultime settimane. Non solo Washington ha inserito infatti i Guardiani della Rivoluzione nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ma ha anche dislocato la portaerei Abraham Lincoln nel Golfo Persico in funzione principalmente anti-iraniana. Una serie di azioni particolarmente energiche che hanno portato vari analisti a ipotizzare lo scenario di un conflitto diretto tra le due potenze.

LE RAGIONI DEL CAMBIO DI ROTTA

Adesso, è necessario capire il significato di questo parziale cambio di rotta. Un mutamento che forse potrebbe essere rivelatore del fatto che, alla Casa Bianca, la linea da seguire sulla questione iraniana non sia affatto univoca. Del resto, segnali in questo senso si erano palesati anche nelle ultime settimane. Non dimentichiamo che, durante il recente viaggio a Tokyo, Trump si fosse detto disposto ad aprire negoziati per risolvere la questione nucleare con la Repubblica Islamica. Inoltre, quando a metà maggio fu ventilata l’ipotesi di mandare centoventimila soldati statunitensi in Medio Oriente, Trump si era affrettato a bocciare prontamente l’idea. Tanto che, alla fine del mese scorso, lo Zio Sam si è limitato all’invio di millecinquecento militari: un atto importante, che ha suscitato le proteste di Teheran. Ma un atto, la cui portata appare drasticamente ridimensionata rispetto ai precedenti progetti elaborati dai falchi anti-iraniani.

LE DUE FAZIONI DENTRO LA CASA BIANCA

Perché alla fine il punto potrebbe essere proprio questo. Al di là di una compattezza di facciata, sembrerebbe che sul dossier della Repubblica Islamica, la Casa Bianca risulti internamente divisa in due fazioni contrapposte. Da una parte, troviamo il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton. Notorio falco, non è un mistero che sia da sempre favorevole a una strategia particolarmente aggressiva: dipendesse da lui, Washington dovrebbe esercitare la massima pressione (economica e militare) su Teheran per favorire il collasso del regime degli ayatollah. Una linea dura, che viene sostenuta negli Stati Uniti anche da diverse galassie lobbistiche: a partire da quella gravitante attorno al principe ereditario iraniano, Reza Ciro Pahlavi. Senza poi dimenticare che questo approccio bellicoso sia invocato anche da alleati mediorientali degli Stati Uniti come l’Arabia Saudita: Riad mira infatti a un maggior coinvolgimento dello Zio Sam nella regione, in chiave anti-iraniana, cercando di replicare – pur mutatis mutandis – le logiche deterrenti del dual containment di clintoniana memoria.

LA POSIZIONE DI DONALD TRUMP

Dall’altra parte, troviamo Donald Trump, che – dai tempi della campagna elettorale del 2016 – si è sempre mostrato scettico verso gli interventi militari americani in Medio Oriente. Il presidente considera infatti questo tipo di operazioni un azzardo che potrebbe spingere lo Zio Sam in un pantano senza via d’uscita. Quello che Trump teme è, in definitiva, che l’Iran possa trasformarsi in un nuovo Iraq. Una guerra in piena regola contro Teheran si rivelerebbe – in questo ragionamento – rischiosa tra l’altro in termini elettorali: non dimentichiamo che, nel 2016, Trump sia stato eletto anche in virtù di un programma incentrato su una politica estera di disimpegno americano, rispetto agli scenari internazionali più problematici. Impantanarsi adesso in un conflitto con la Repubblica Islamica significherebbe quindi esporsi alle critiche della propria variegata base elettorale: un rischio che, con l’avvicinarsi delle presidenziali del 2020, il magnate newyorchese non può certo permettersi di correre. Infine, a livello di sistema internazionale, un’eventuale guerra contro l’Iran potrebbe offrire delle ripercussioni negative anche nel duello militare e tecnologico che Washington sta portando avanti con la Cina. Non dimentichiamo infatti che Pechino abbia approfittato dei guai statunitensi rimediati in Iraq nei primi anni 2000 per rafforzarsi su più piani rispetto allo Zio Sam. I timori di uno scenario così preoccupante non è escluso che possano essere condivisi anche dalle parti del Pentagono.

LE PROSSIME MOSSE DEGLI USA

Adesso bisognerà capire se Trump riuscirà a portare avanti questa linea morbida. Una linea che, a ben vedere, non risulta poi così inedita. Da candidato, il magnate non ha mai criticato l’accordo sul nucleare del 2015 in sé (come facevano invece molti suoi “colleghi” di partito): la sua tesi era semmai che quell’intesa fosse stata conclusa in modo frettoloso dall’amministrazione Obama e che dovesse pertanto essere rinegoziata, possibilmente in modo bilaterale. In questo senso, è possibile che – agli occhi del presidente – la crescente pressione cui Teheran è stata recentemente sottoposta risulti finalizzata proprio a questo: spingere il presidente iraniano, Hassan Rohani, a sedersi al tavolo dei negoziati, espellendo magari alcuni dei partner del vecchio accordo (a partire da Francia e Germania). Un modo per riportare un minimo di influenza americana dalle parti di Teheran. Qualcosa che i falchi di Washington faranno tuttavia fatica a digerire.

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