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L’Isis non è morto, è solo in rianimazione. L’analisi dell’ambasciatore Stefanini

Di Stefano Stefanini

Per evitare che la sua legacy di odio sia dimenticata, lo Stato islamico sta abbandonando le ultime roccaforti in Siria bruciando frutteti e campi di grano. Esige vendetta da contadini innocenti per la sconfitta militare subita. La crudeltà ingiustificata mette a tacere ogni dubbio – se mai ve ne fossero – sulla natura del jihadismo radicale. Non ha nulla a che vedere con la religione, tutto con la disumanità. Nessuno viene risparmiato. I musulmani lo devono temere tanto quanto cristiani, buddisti o ebrei. Ha la capacità di strumentalizzare l’Islam per fini politici. Questa è la sfida con cui si confronta oggi la comunità internazionale.

Lo Stato islamico, esattamente come Al Qaeda e i suoi affiliati, è cresciuto e ha prosperato grazie all’uso della religione e alla militarizzazione dell’Islam in casa e all’estero. Le sue reclute sono musulmane di nascita o convertite. Raqqa è stata liberata (come Kabul nel 2001) ma il nesso fra terrorismo e religione deve ancora essere reciso. Diversi Paesi islamici lo hanno riconosciuto come minaccia e hanno iniziato ad occuparsene seriamente identificandolo e marginalizzando i “predicatori d’odio”. In Occidente e in Europa il proselitismo radicale e il conseguente reclutamento avvengono sotto traccia, non solo nelle moschee, ma anche in normali scuole e prigioni – e, ovviamente, sugli onnipresenti social media. Gli esempi abbondano fra i foreign fighters legati al Califfato, spesso fra i più giovani.

L’ultimo colpo del Califfato in Siria si aggiunge alle sofferenze già inflitte alla popolazione locale negli ultimi quattro anni ma non cambia la realtà dei fatti. Lo Stato islamico è stato cacciato a tutti gli effetti dall’Iraq e dalla Siria dalla coalizione a guida internazionale Usa e i suoi indispensabili soldati di fanteria delle Forze democratiche siriane, specialmente quelli delle Unità di protezione del popolo curdo (Ypg). Il Califfato come lo abbiamo conosciuto non esiste più. L’ideologia perversa che lo ha ispirato e gli ha permesso di avere successo, sia pur brevemente, purtroppo è viva e vegeta. Come evitare che nuovi Califfati risorgano dalle macerie della sconfitta militare?

Il breve Califfato di Raqqa doveva la sua esistenza a una combinazione di fattori. Primo: il fallimento dello Stato per un lungo tratto di territorio, dalla Siria all’Iraq occidentale e settentrionale, in assenza di autorità di governo nazionali e regionali efficaci (o in presenza di autorità troppo deboli). La natura rifiuta sempre i vuoti. L’Isis è subentrato quasi di default.

Il secondo fattore è il cuore pulsante del movimento jihadista: l’ideologia. Il jihadismo radicale si fonda sulla convinzione che qualsiasi mezzo sia legittimo per ristabilire il Califfato: armi, violenza, terrore. La resilienza ideologica permette al movimento di rinascere dalle sue sconfitte tattiche.

Intere comunità e aree del mondo islamico sono finite sotto l’influenza di quel che Katherine Zimmerman dell’American Enterprise Institute chiama “Movimento jihadista salafita”. Assistenza medica, istruzione, “legge e ordine”. Una giustizia cruda, basata sulla Sharia, ma pur sempre un sollievo dalla totale assenza di legge frutto del fallimento dello Stato. Non è questa ovviamente la situazione in Occidente. Eppure anche lì questa grezza ideologia ha fatto incursion significative, soprattutto in Europa. Prova ne sono i foreign fighters che si sono riversati in Siria per arruolarsi all’insegna della bandiera nera del Califfato.

Per sconfiggere il Califfato in Mesopotamia, la coalizione anti-Isis ha vinto una battaglia importante. La guerra continua. Il movimento jihadista non ha abbandonato le sue ambizioni territoriali; sta semplicemente scrutando la prossima opportunità, magari in Libia, dove è già apparso nel 2016, oppure ovunque si verifichi il collasso dell’autorità statale. Tutto ciò di cui ha bisogno è un anello debole. I candidati abbondano, dal Mali allo Yemen. Il minimo che può fare è continuare a infliggere sofferenze e diffondere il caos con gli attacchi terroristici.

Per vincere la guerra la comunità internazionale deve operare su più fronti. Stabilità geopolitica per evitare nuovi fallimenti statali. Contrasto al terrorismo con strumenti diplomatici (nessun Paese può fare da sé), militari, di polizia e di intelligence. Lotta alla radicalizzazione e al proselitismo (contro-ideologizzazione). Quest’ultima è il vero campo di battaglia. Il nemico interno è la vulnerabilità più pericolosa. I Paesi musulmani hanno l’onere di spezzare la connessione fra movimento jihadista salafita e l’ambiente circostante. L’Occidente, specialmente l’Europa, non è immune dal contagio.

L’Europa ha continuato a contrastare e prevenire le minacce terroristiche attive, con qualche successo dopo gli attacchi del 2015-2016 in Francia, Germania e Regno Unito.  Ma non riuscirà a bonificare la palude finché non prenderà di petto l’ideologia e il suo appeal di fronte al pubbico domestico. I governi hanno faticato ad affrontare la radicalizzazione islamica perché nasconde la sua agenda politica dietro un velo di libertà religiosa e di espressione. Deve invece essere riconosciuta come nemica giurata di “costituzioni, democrazie e multiculturalismo degli Stati europei”.

La sfida per l’Europa non è l’Islam in sé. È la politicizzazione strategica dell’Islam per le terrene ambizioni di potere e popolarità globale (“L’agenda Ummah”); il supporto degli approfittatori politici che operano all’ombra di moschee, scuole, associazioni. Si tratta solo di una frazione delle istituzioni islamiche in Europa. Ma quando e dove quelle istutuzioni divengono la porta di entrata della radicalizzazione jihadista, e poi della militanza e del terrorismo, deve essere impedito agli uscieri di operare.

Nelle società democratiche basate sullo Stato di diritto il pugno duro contro predicatori e reclutatori si scontra contro quegli stessi equilibri costituzionali di cui l’Islam politico vuole sbarazzarsi (indipendenza giudiziale, libertà di stampa). Governi e autorità di polizia sono spesso ostacolati. C’è tuttavia uno strumento essenziale a disposizione. Si tratta del vecchio detto: follow the money. Il terrorismo sarà anche asimmetrico ma non è gratis. I governi oggi hanno strumenti sofisticati, e la cooperazione internazionale ha fatto grandi passi avanti. Recidere le fonti di finanziamento della radicalizzazione jihadista è un primo, efficace passo che non può essere rimandato. La lotta contro il ritorno del Califfato inizia a casa nostra.

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