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Per prendere la via della crescita occorre riformare la Giustizia. L’analisi di Pennisi

Sono rimasto allibito – come gran parte degli italiani – a leggere le intercettazioni di magistrati e politici su come orientare nomine ed incarichi nella magistratura a fine, ove non illeciti, che rispecchiassero il loro tornaconto. Un economista americano, mio ospite, commentava che, a torto od a ragione, sembravano passaggi dalla saga Il Padrino di Mario Puzo ed aggiungeva che i magistrati coinvolti, in un Paese Ocse, avrebbe dovuto immediatamente lasciare l’ordine per non infliggere ulteriori danni all’immagine della categoria dato che, pur se non ci sono stati reati, le percezioni sono più importanti della realtà ed ormai i cittadini hanno perso quella fiducia (grande o poca che fosse) che riponevano nell’apparato giudiziario. Dato che le (brutte) sorprese non finiscono mai, sono rimasto ancor più stupefatto quando ho letto dichiarazioni a non “affrettare” sulla scia delle polemiche la riforma della magistratura ma a maturarla lentamente.

SEPARAZIONE DELLE CARRIERE

Se vogliamo mettere l’Italia su un percorso di crescita – lo dico da economista che poco sa di pandette e di traffici di influenza per uffici giudiziari – la separazione delle carriere dovrebbe essere fatta per decreto legge e la riforma del diritto processuale (per renderne certi, e brevi, i tempi) per decreto delegato. Risolverebbe anche il problema dei dossieraggi e dell’uscita di intercettazioni riservate poiché in caso di tale fuoruscita, l’obbligatorietà dell’azione penale farebbe immediatamente aprire indagini sugli inquirenti e sulla polizia giudiziaria. Solo pochi mesi fa, il bel saggio di Pierluigi Ciocca (ex vice direttore generale della Banca d’Italia) Tornare alla Crescita (Rubettino, 2018) ribadiva, sulla base di un’attenta storia economica dall’unificazione d’Italia ai nostri giorni, che il riassetto della magistratura e del diritto pubblico dell’economia, sono elementi indispensabili anche se non sufficienti a fare uscire l’Italia dalla stagnazione permanente.

LE VOCI PER UNA RIFORMA

Non è la prima voce in tal senso. Circa dieci anni fa, Daron Acemoglu, un simpatico economista turco-americano in odore di Nobel che insegna al M.I.T, è stato invitato a pronunciare le “Federico Caffè Lectures” all’Università “La Sapienza”, uno degli eventi annuali più prestigiosi dell’ateneo Sala affollatissima di studenti e docenti. Peccato che non c’era nessun esponente di quel partito dei magistrati che si oppone alla riforma dell’ordinamento giudiziario, alla separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici giudicanti ed alla fissazione di termini precisi per i processi. Avrebbero avuto molto da imparare dal buon Acemoglu e dalle “lectures” la prima delle quali riguardava le prassi istituzionali, la seconda le oligarchie. Non si è parlato specificatamente del “caso giustizia” in Italia – troppo lontana dal M.I.T. – ma di come cattive prassi giudiziarie giovano ad oligarchie e frenano la crescita economica.

L’OPINIONE DI CALAMANDREI

Già nel lontano 1941, nel saggio Il nuovo processo civile e la scienza giuridica”, pubblicato nella Rivista di Diritto Processuale, Piero Calamandrei  aveva sottolineato come “l’eccessiva durata del processo” è “motivo di crisi” del sistema giudiziario e, quindi, delle libertà civili. Più di recente, il Premio Nobel per l’Economia Douglas North, nella sua opera principale molto diffusa in traduzione italiana (Istitutizioni, evoluzione istituzionale, andamento dell’economia), ha sottolineato come l’aumento dei costi di transazione (derivante dalla durata eccessiva dei processi) sia un freno all’economia, pur se arricchisca alcuni (spesso membri dell’ordinamento giudiziario medesimo) tramite concordati extra-giudiziari.

LE CONDANNE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA

Le citazioni potrebbero continuare. Sono note le continue severe critiche che ci vengono rivolte dalla Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo e dalla Corte di Giustizia Europea, nonché implicite nella analisi della Banca Mondiale e dell’Unctad (tutte organizzazioni distinte e distanti dalla nostre beghe) secondo cui la lunga durata dei procedimenti e la mancanza di chiara distinzione tra accusa e giudizi (tipica di tutti i Paesi civili) sono tra le determinanti principali dello scarso flusso d’investimenti privati dall’estero alla volta dell’Italia.

Ho difficoltà, da semplice economista, a comprendere perché molti magistrati si oppongono a proposta dirette a mettere l’Italia al passo con il resto dei Paesi Ocse. Ho, però una certezza: se ciò non avverrà resteremo al palo- lo stesso ufficio studi della Bce (altra organizzazione che poco ha a che fare con le nostre faccende giudiziarie) avverte che se non cambiamo l’Italia non potrà mettersi al passo.

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