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L’Europa che esce dalle elezioni

L’Europa post-elettorale mostra un nuovo equilibrio tra Popolari e Socialisti da una parte, e Liberali e Verdi dall’altra. Come saggiamente evidenziato da Marta Dassù, il declino dei partiti del vecchio europeismo popolar-democratico (a cominciare dalla CDU di Mevrouw Merkel) è stato assorbito da un europeismo meno “istituzionale”, che ha presentato novità e istanze evidentemente care a nuovi centri di interesse, ad esempio l’ultima generazione di votanti. L’affermazione dei Verdi in Germania (34%) è indicativa di questo fenomeno, con elettori fra i 18 e i 24 anni di età, vicini al “gretismo”.
La nuova geografia politica dell’UE influenzerà dunque il funzionamento del Consiglio Europeo: non dimentichiamo che in occasione della crisi finanziaria del 2008 ma anche della recente crisi migratoria, Consiglio e Parlamento (co-decisori dell’attività legislativa) hanno aumentato entrambi il proprio peso a spese della Commissione, che si rivela sempre più un pallido esecutivo e con nodi irrisolti da lungo tempo (watchdog della concorrenza in ambito comunitario, e allo stesso tempo partecipante all’attività legislativa).
Il triangolo istituzionale che regge il processo decisionale dell’Unione Europea si è dunque spostato verso metodo intergovernativo, ma non dimentichiamo che dopo il Trattato di Lisbona del 2007 i due metodi decisionali adottati all’interno dell’UE (quello intergovernativo e quello comunitario/sovranazionale) sono andati spesso in disfunzione.
Quanto ai partiti euro-scettici, una breve precisazione va fatta, a correzione di alcune analisi davvero troppo affrettate che si sono lette nei giorni post-voto (ansia dei sedicenti intellettuali di esprimere opinioni rilevanti?). La composizione di questo “fronte” è diversificata sul piano genetico, e per nulla omogenea (vedasi ad esempio Lega in Italia e Rassemblement National in Francia), in quanto ciascun partito sedicente “sovranista” è figlio del contesto storico e politico che caratterizza il paese di provenienza. Il pur variegato fronte “sovranista” ha avuto un successo marcato in Italia (con la Lega) e in Gran Bretagna (con Farage), più attenuato in Francia, Germania e Polonia.
Questa cintura immaginaria (come denominata dalla Dassù) che da UK passa per Francia, Italia, e arriva in Polonia attraverso la Germania, si qualifica come “sovranista” ma è soprattutto una corrente euroscettica verso lo status quo e riformista, declinata in diverse forme da Stato Membro a Stato Membro.
In questa luce, è davvero difficile valutare il significato di Brexit di due anni fa e compararlo con le recenti affermazioni di Lega in Italia o di Farage in UK. La percezione è che questi esiti non vadano interpretati in via troppo scontata come una sfiducia per se verso l’Europa, bensì come una sfiducia verso un’Europa a trazione franco-tedesca (sempre più tedesca) e ad un establishment inadeguato. Una classe dirigente che ha deviato dal progetto originario dei padri fondatori, oppure sarebbe meglio dire che ha perpetuato un disegno accentratore, un’Unione centralizzata e burocratica appoggiata su un’asse preferenziale franco-tedesca che tenta con tutti i mezzi di auto-preservarsi (la weberiana “gabbia d’acciaio”, come spesso richiamato da Corrado Ocone).
Gli esperti sono scettici su un’opposizione parlamentare unitaria e coesa da parte del fronte “sovranista”. D’altra parte, è già evidente che tenere insieme la maggioranza non sarà affatto facile: Germania, Francia e Spagna avranno alle spalle i tre diversi gruppi principali a Strasburgo, inoltre l’agenda verde sarà trasversale e complicherà scelte decisive sul prossimo bilancio (politiche fiscali, politica della concorrenza e politica estera). Non ultimo, dovrà essere concluso il trattato di “exit” con la Gran Bretagna.
Come sottolineato da detti esperti, saranno forse i governi pro-europei, più che la minoranza “sovranista”, a dover dimostrare che l’Europa può rinnovarsi e funzionare per proteggere i suoi cittadini in un’epoca di competizione globale?

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