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Alleanza atlantica e droni, tra tecnologia, sfide e opportunità

Di Marco Tesei e Alberto De Vitis
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Settanta anni fa, nella giornata del 4 Aprile, si strinse un patto figlio dell’esigenza di garantire la pace. Gli Stati firmatari del Patto Atlantico si impegnavano a garantire la difesa generale contro un qualunque attacco armato e affermavano la volontà di vivere in pace con tutti i popoli. Nasce la Nato.

Circa vent’anni dopo e coerentemente con i principi fondativi, il 24 Marzo parte l’Operazione Allied Force e la stessa Nato, a protezione della popolazione kosovara di etnia albanese, agisce contro le forze di aggressione serbe. È proprio durante Allied Force che la NATO impiega per la prima volta i droni per attività operative su scenari militari. Più precisamente, i primi Predator agiscono per attività di raccolta immagini e ricognizione elettronica finalizzata all’identificazione di obiettivi elusivi come truppe nascoste nei bunker o nei boschi: un successo.

Nello stesso periodo Elisabeth Becker firma sul New York Times uno dei primi articoli in cui si inizia a parlare di droni come “mezzi autonomi che volano basso e che catturano immagini” (“They’re Unmanned, They Fly Low, and They Get the Picture”). L’importanza strategica dei mezzi autonomi per attività di intelligence e modern warfare, da quel momento, diventa di dominio pubblico: i droni diventano una risposta sia alla richiesta di ottimizzazione degli investimenti militari, sia alla necessità di capitalizzare i dati territoriali ottenuti; qualche anno dopo sarà lo stesso Rasmussen a spingersi a consigliare agli alleati di puntare sui droni di sorveglianza.

Nei pochi anni che intercorrono tra Allied Force e l’intervento del Segretario Generale succede poi qualcosa: il drone, inteso come strumento, nel frattempo è diventato liberamente e facilmente utilizzabile, a costi ridotti, anche in ambito civile. Nel 2018 a fronte di circa 2400 droni per impiego militare, vengono venduti circa 3.6 milioni di droni per impiego civile. Le innumerevoli ore di volo accumulate e la riduzione sistemica dei costi legati alla componentistica, anche a fronte dell’infinito panorama di scenari operativi offerto dalle applicazioni civili, hanno consentito di ridurre i costi generali aumentando l’affidabilità e l’accuratezza delle “pictures” descritte dalla Becker. In sostanza i droni continuano a volare basso e scattare foto, ma a distanza di dieci anni sono in grado di farlo infinitamente meglio e non solo per applicazioni militari.

Il panorama delle “pictures” offerte si è poi esteso di pari passo con l’evoluzione tecnologica dei sensori e la loro pronta applicazione nei sistemi basati su drone: è da leggere positivamente come il settore, anche grazie all’impiego civile, abbia sviluppato sistemi ad alta efficienza e possa offrire nuove opportunità non solo per la sorveglianza ma anche per la digitalizzazione di asset strategici, sia questa basata su fotogrammetria o sistemi LIDAR di nuova generazione. Ogni Paese dell’Alleanza può oggi, con metodi infintamente più veloci ed efficienti rispetto alle controparti “ground”, disporre di mappe geolocalizzate di asset strategici con precisione millimetrica. Ciò ha reso pratica oramai consolidata l’utilizzo dei droni per la progettazione di reti di servizi pubblici ed in un mondo in cui si va delineando sempre di più l’importanza dei dati territoriali, si rende inevitabile la necessità di conoscere ogni dettaglio delle infrastrutture sensibili, non solo per la difesa delle stesse ma anche per la loro capitalizzazione; anche in questo caso, i droni si stanno affermando sempre di più come il “silver bullet”. Non solo: legando di difesa e capitalizzazione, i droni diventano anche un ottimo esempio – forse il migliore – di approccio duale all’aggiornamento tecnologico.

È proprio in questa dualità che potrebbe inserirsi in maniera determinante la Nato nel prossimo futuro, offrendo un punto di vista autorevole e slegato dalla singola realtà territoriale per far fronte a quello che è già oggi un problema trasversale: la gestione delle informazioni che un drone moderno è in grado di ottenere. Se sulle potenziali minacce poste dall’uso malevolo di droni c’è una visione comune, oltre che un’adeguata sensibilità sociale e trasversale, la cura dei dati strategici ottenuti tramite droni è una criticità ancora poco discussa e che deve essere affrontata in tempi rapidi. Se il problema non si pone in ambito militare, diventa determinante nelle applicazioni civili su scenari di interesse militare: qual è il contenitore dei dati acquisiti durante le attività civili con i droni e chi può usufruire di questo contenitore? I droni che oggi vengono impiegati per utilizzi di interesse pubblico come le ispezioni delle linee elettriche, i monitoraggi di infrastrutture critiche quali ponti e viadotti, il controllo delle dighe e di impianti energetici, sono per la maggior parte prodotti in paesi non appartenenti alla Nato. Utilizzare questi sistemi vuol dire, di fatto, esporsi al rischio che i dati acquisiti durante le attività sul campo possano essere trattati anche da chi non solo non ne avrebbe diritto, ma magari persegue interessi in diretta contrapposizione alla Nato stessa.

Il problema del trattamento di dati sensibili è serio, diffuso e certamente sentito, tanto è vero che l’Unione Europea ha prontamente emanato la nuova regolamentazione GDPR in materia; è anche vero però che le linee guida fornite dal GDPR non possono prevedere processi di mitigazione in casi così particolari e legati ad un mercato in continua espansione ed aggiornamento, e quindi intrinsecamente scarsamente controllabile. Si ritiene quindi inevitabile ed auspicabile la redazione di linee guida dedicate a cui dovranno seguire poi regolamenti comuni per tutti gli stati membri: in questo contesto la Nato, con la sua esperienza, può rivelarsi determinante.



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