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La Nato dalla Guerra Fredda ai giorni nostri

Di Giulia Altimari

Il 4 aprile scorso la Nato ha compiuto 70 anni. Era infatti il 1949 quando a Washington venne firmato il trattato istitutivo della North Atlantic Treaty Organization.

Il Patto Atlantico, che originariamente fu sottoscritto da dodici Paesi, fra i quali l’Italia, nacque all’indomani della fine della seconda guerra mondiale per far fronte a un bisogno crescente di sicurezza e difesa verso quella che in molti, in occidente, avvertivano come un’incombente minaccia: le mire espansionistiche di un’Unione Sovietica percepita come “scontenta” per quanto ottenuto dalla spartizione determinatasi alla fine del conflitto e sospettata di voler diffondere e affermare globalmente l’ideologia comunista.

La natura di questo trattato assunse i contorni di un accordo di “difesa collettiva”. Nell’art. 5, infatti, si affermava sostanzialmente che un qualunque attacco contro uno o più dei Paesi firmatari sarebbe stato considerato come un attacco contro tutti.  La nascita di una simile alleanza fu considerata come un vero e proprio atto “ostile” da parte dell’Unione Sovietica, la quale a sua volta diede vita, nel giro di qualche anno, a un’alleanza del tutto simile tra i Paesi del blocco comunista (Patto di Varsavia) da contrapporre a quella nata attorno agli Stati Uniti. Ebbe così inizio quel periodo di “pace armata” che tutti noi conosciamo come “guerra fredda”.

Ma la storia di questi settant’anni ci ha consegnato eventi che hanno cambiato in modo significativo gli scenari geopolitici non solo dell’Europa ma del mondo intero.

In seguito al crollo del muro di Berlino, il 9 novembre del 1989, e di conseguenza al dissolversi della “minaccia sovietica”, con la fine del Patto di Varsavia, prima, e della stessa Unione Sovietica dopo, di fatto sembrò venir meno a molti il motivo fondante dell’Alleanza Atlantica.

Il nuovo panorama politico mondiale, così sconvolto dalla fine della Guerra Fredda, imponeva un cambiamento e un adeguamento delle strategie. E riuscire a farlo non era affatto scontato: il mondo bipolare, che aveva caratterizzato i quarant’anni precedenti del Novecento, non esisteva più e con la sua scomparsa apparve in essere la concreta possibilità che anche la Nato potesse terminare i suoi compiti.

Questo però non accadde. Nel nascente sistema internazionale post-Guerra Fredda, la Nato trovò un suo nuovo spazio per collocare la sua azione. Il concetto base dell’Alleanza, citato nell’art. 5 del Trattato del Nord Atlantico, e basato sulla difesa collettiva, lasciò infatti il posto ad un concetto di sicurezza più ampio: l’alleanza inizia ad assumere i contorni di una collaborazione politico-militare tra più Paesi e non circoscritta alla sola area nord-atlantica. Si delinea in questa fase il concetto di “Grande Nato” e si va impostando ciò che oggi può essere definita come l’organizzazione militare più utilizzata a favore del rispetto della Carta dell’Onu e del diritto umanitario.

Il nuovo concetto strategico dell’Alleanza viene stabilito il 7 novembre 1991 presso il Consiglio Atlantico. Diversamente dal periodo della “Guerra Fredda”, adesso il rischio è multidirezionale e di più difficile prevenzione. I Paesi membri sono invitati anche a “condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5 e al di fuori del territorio dell’Alleanza”.

Ed è quanto accade nei Balcani con alcuni interventi non certo contemplati dall’originario mandato dell’Alleanza. Nel 1995 prende il via l’Operazione Deliberate Force, una campagna militare aerea condotta in Bosnia Erzegovina contro le truppe serbe, grazie alla quale, si obbligò la leadership serba e serbo‐bosniaca ad accettare i colloqui che sarebbero poi culminati con la pace di Dayton. Pochi anni dopo, nel 1999, si assiste all’Operazione Allied Force, caratterizzata da un’altra campagna aerea lanciata per interrompere le violenze in corso in Kosovo, riportare la delegazione serba al tavolo delle trattative e seguita da una missione di terra per evitare il caos in attesa di un accordo tra le parti.

Nel frattempo la Nato comincia ad allargarsi verso Est con l’ingresso nell’organizzazione di Paesi appartenenti all’ex Patto di Varsavia, come la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria (anno 1999), per proseguire via via con le repubbliche dell’ex Unione Sovietica, come Estonia, Lettonia, Lituania (anno 2004). Da questo momento in poi la Nato adotta la cosiddetta “politica della porta aperta”, con l’obiettivo di favorire l’ingresso futuro nella Nato ad altri paesi interessati e che ad oggi ha portato a ventinove il numero di Stati membri.

Con gli attentati dell’11 settembre 2001 sul territorio americano, viene per la prima volta attivato l’articolo 5 del trattato di Washington e la Nato si ritrova a dover fronteggiare una nuova sfida. Fino a quel momento, il terrorismo non era stato certamente considerato una priorità fra le preoccupazioni dell’Alleanza nel campo della sicurezza.  Ma la gravità degli atti terroristici condotti con spietata lucidità e efficienza organizzativa hanno imposto un ulteriore adeguamento delle strategie tanto da poter dire che quasi ogni aspetto dell’attività in ambito NATO è stato riconsiderato alla luce della minaccia che il terrorismo ha posto in termini di sicurezza ai nostri Paesi, alle nostre città e alle loro popolazioni. Da quel momento sulla base delle direttive emanate nei vertici di Praga (2002) e di Istanbul (2004), l’Alleanza ha inserito il terrorismo in ogni ambito della sua azione. Da quello politico a quello dei concetti e delle dottrine, da quello delle proprie capacità militari a quello della gestione delle conseguenze nel caso di attacchi di portata catastrofica, da quello operativo a quello della cooperazione internazionale. Da quel momento, insomma, la sfida al terrorismo internazionale è stata lanciata arrivando fino ai nostri giorni. Ma non è certo l’unica che la Nato si ritrova oggi a dover fronteggiare in questa fase contemporanea di profondo mutamento degli scenari globali.

La complessità e la continua mutazione degli scenari strategici, geopolitici, sociali ed economici, insieme allo straordinario progresso tecnologico, impone una costante revisione delle linee guida del “Concetto Strategico” dell’Alleanza. Se, come abbiamo visto, all’indomani della dissoluzione dell’URSS, la Nato è passata da un ruolo di sostanziale deterrenza, privo di un impegno operativo reale, a quello di un concreto contributo per la pace, anche attraverso l’uso della forza, oggi l’Alleanza è chiamata inevitabilmente ad allargare il concetto di sicurezza ad ambiti che fino a pochi anni fa erano considerati solo un rischio limitato per portata e potenziale danno.

Ed è quello legato anche al dominio cibernetico, al digitale, all’informatica. Il rischio di attacchi contro la sicurezza informatica di importanti infrastrutture strategiche della comunicazione, della difesa, dell’economia di un Paese è infatti diventato molto più di un semplice rischio. Il terrorismo cibernetico e il cyber warfare hanno assunto i connotati di una seria minaccia contro cui si rende necessaria una difesa che renda tale minaccia gestibile. Non caso su questo tema, come intorno al più vasto concetto di hybrid warfare, la Nato negli ultimi anni sta elaborando nuove strategie di intervento e di difesa anche in previsione delle nuove sfide dei prossimi anni.

Giulia Altimari, laureata in Relazioni internazionali, collabora con Europa Atlantica


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