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Il ruolo dell’Italia nella strategia Nato nel Mediterraneo

Di Matteo Gerlini
Nato

L’impegno militare statunitense si fondava politicamente sulla dottrina del presidente Harry S. Truman, che legava la sicurezza nazionale degli Stati Uniti all’aiuto ai popoli liberi in lotta contro il totalitarismo. Formulata nel 1947, la dottrina fu applicata nel 1948 in sostegno dei governi di Grecia e Turchia, dunque due Paesi mediterranei furono legati alla sicurezza nazionale statunitense, elemento questo che accompagnò la preparazione del trattato dell’Atlantico del nord e dell’organizzazione che dal trattato sarebbe derivata, la NATO appunto. Il retroterra dell’applicazione della dottrina Truman era, anche in senso geografico, la collocazione dell’Italia nel campo occidentale ovvero impedirne la neutralità o addirittura il passaggio nel orbita sovietica. La sconfitta del fronte popolare nelle prime elezioni della repubblica italiana fugò la terza possibilità; la realizzazione della prima, nella sua massima espressione dell’adesione dell’Italia al Trattato dell’Atlantico del Nord, fu un processo tutt’altro che scontato.

Il governo francese si impegnò affinché la Repubblica italiana fosse fra gli stati firmatari del trattato, il 4 aprile 1949. Come ricorda la storiografia, vari motivi presiedettero a questo orientamento, fra i quali è opportuno qui menzionare sia l’incremento dato dalla partecipazione italiana all’aliquota dei paesi cattolici firmatari, sia il bilanciamento al baricentro geografico del trattato, posto nel nord del continente europeo. Queste considerazioni sono senz’altro analiticamente valide rispetto al gioco politico fra gli Stati dell’Europa occidentale, ma dal punto di vista americano la rilevanza strategico-politica del mediterraneo era già un assioma, come lo erano altri cruciali bacini del pianeta. Vi era certamente una forte cogestione di queste aree col Regno Unito, nella quale gli Stati Uniti stavano passando da gigante comprimario a superpotenza protagonista. Una linea di tendenza nella special relationship, che si sviluppò negli anni successivi, iniziando però dal Mediterraneo. In questo mare il subentro avvenne prima rispetto ad altre bacini orientali, datando solitamente il suo inizio col ricordato sostegno statunitense al governo greco. I francesi si trovavano invece in una situazione che comprendeva un braccio di Mediterraneo nell’ambito nazionale, poiché l’Algeria non era semplice colonia ma parte del territorio metropolitano della Francia. Questo aspetto marcava una differenza sensibile fra la partecipazione francese e quella britannica al comando integrato delle forze marittime mediterranee della NATO, perché la sponda algerina del territorio francese non poteva essere trattata al pari delle altre colonie dell’impero e dunque necessitò di un processo di decolonizzazione assai più difficile.

LA REPUBBLICA ITALIANA

Problemi di cui era scevro l’altro grande alleato NATO del Mediterraneo, avendo la Repubblica italiana perduto le colonie dell’impero fascista. La posizione italiana era in bilico fra il flebile consenso interno che l’adesione al trattato aveva riscosso, e la necessità strategica delle piazzeforti sul territorio italiano nell’economia del confronto fra i due blocchi. È utile ricordare le difficoltà del capo del governo, Alcide De Gasperi, nel far convergere il suo stesso partito sulla scelta atlantica. D’altronde nell’Italia cattolica si riversavano le complicazioni che storicamente il Vaticano visse con gli Stati Uniti d’America, sebbene rilevanti elementi della vita ecclesiale avessero preso una netta posizione in favore del trattato atlantico. Sulla necessità strategica del territorio italiano, è invece bene ridimensionare la rilevanza dell’ovvio carattere peninsulare, per storicizzare invece le varie fasi di evoluzione della partecipazione italiana al sistema difensivo della comunità atlantica come elemento mediterraneo. Infatti il rilievo strategico delle basi che il governo statunitense stabilì sulle isole e sul continente italiano, nelle corde del Trattato, mutò con la ridefinizione degli assetti politici mediterranei. Cioè l’importanza dell’Italia nel controllo marittimo si accrebbe con lo svolgersi del percorso di decolonizzazione in Mediterraneo, non solo dell’Algeria ma soprattutto di Malta, congiuntamente al consolidamento delle strutture della NATO. A queste due dinamiche si intersecava l’evoluzione tecnologica degli armamenti, e la politica che ne derivava, cioè lo sviluppo dei vettori balistici armati con testate nucleari. L’entrata nella cosiddetta “età dei missili” ridusse il valore deterrente dell’aereonautica, non essendo più questa l’unico vettore delle armi nucleari, così come era stato impostato nei primi anni delle armi nucleari: bombardieri in cielo in turnazione costante, che garantivano la retaliation anche in caso di distruzione dei centri di comando. Nel 1960 la NATO schierò i missili strategici PGM-19 Jupiter, prima in Puglia e successivamente nella provincia di Smirne, che minacciarono direttamente l’Unione Sovietica con testate nucleari. Scelta dalle molte implicazioni, ma che dal punto di vista geografico pareva esprimere il valore del territorio italiano verso l’interno del continente, come fianco meridionale della NATO assieme alla Turchia, e non verso il mare. Tuttavia, bisogna considerare che lo schieramento dei missili giungeva al termine di un periodo di fluida definizione delle strutture di comando NATO, a cui sarebbe seguita una fase – perdurante sino ad oggi – dove il carattere mediterraneo dell’Italia divenne un aspetto cardinale della sua integrazione nel sistema atlantico.

La costellazione dei centri di comando era stata inizialmente tracciata secondo un disegno che vedeva a Napoli la sua stella principale. Lì era stato istituito nel 1951 il comando alleato del sud, che comprendeva anche il comando delle forze navali del Mediterraneo. Già nel 1952, in parallelo con l’adesione al trattato della Grecia e della Turchia, il Comando delle forze navali nel Mediterraneo fu riorganizzato a Malta e posto sotto comando britannico. L’ingresso dei due Paesi, storicamente nemici, oltre a segnare un successo politico dell’alleanza foriero di positive complicazioni, pose la necessità di ricalibrare il baricentro di comando marittimo. L’isola di Malta, ancora possedimento britannico, era un asset strategico in questa ridefinizione. Il comando di Napoli fu convertito nell’Allied Forces Southern Europe (AFSOUTH), uno dei due comandi strategici operativi del Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE), stabilito nel 1953 a Rocquencourt nell’Ile de France. Dunque i britannici ebbero il Comando Gibilterra Mediterraneo (COMGIBMED) e il Comando Mediterraneo Sudorientale (COMMEDSOUTHEAST), i francesi il Comando Mediterraneo Occidentale (COMMEDWEST), gli italiani il Comando Mediterraneo Centrale (COMEDCENT), i greci il Comando Mediterraneo Orientale (COMEDEAST) e i turchi il Comando Mediterraneo Nordorientale (COMEDNOREAST), che estendeva le sue competenze su tutto il Mar Nero. Con gli accordi di Evian del 1962 che resero l’Algeria indipendente dalla Francia, il Comando NATO del Mediterraneo Occidentale (COMMEDWEST) fu spostato da Algeri a Tolone, perdendo spazio strategico.

CRISI E TRASFORMAZIONE

Nell’autunno del 1962, la crisi dei missili a Cuba riportò il fulcro della guerra fredda sulla questione degli armamenti nucleari. Dopo lo schieramento dei missili in Italia e Turchia, a cui si aggiungevano i missili schierati in Gran Bretagna, la scelta filosovietica del governo rivoluzionario cubano parve sparigliare le carte del gioco strategico. Gli Stati Uniti uscirono dalla crisi con una vittoria di immagine, politicamente importante, perché i russi rinunciarono ad installare i missili a Cuba, ma dovettero strategicamente pagare dazio della dismettendo i missili in Italia e Turchia. Una decisione ambivalente, intrapresa dalla presidenza di John Fitzgerald Kennedy, che investiva i due paesi mediterranei. Infatti i missili Jupiter furono ritenuti dagli americani tecnologicamente superati, rispetto ai nuovi missili UGM-27 Polaris, lanciabili da navi e soprattutto da sottomarini. Come sempre le scelte tecnologiche sono inseparabili dalle decisioni politiche. Ammesso che i missili Polaris erano di poco più recenti degli Jupiter, ciò non significava che questi ultimi, schierati da appena due anni, fossero già obsolescenti. Di conseguenza fu proprio l’impegno politico statunitense nella difesa della lontana Europa ad essere nuovamente percepito come incerto. Infatti se la risposta a un’invasione sovietica era consegnata al lancio di missili dai sottomarini, invece che da basi poste sul territorio degli Stati alleati e soggetti in prima battuta a una possibile aggressione, l’intervento statunitense diveniva ancor più discrezionale. Esso era il cuore dell’alleanza, pertanto un suo affievolimento – vero o percepito che fosse – scuoteva i fondamenti della NATO. Bisogna aggiungere che il Trattato non prevedeva automatismi di risposta di fronte all’aggressione di un Paese membro, dunque la qualità delle assicurazioni agli europei si dava su un piano di carattere politico sempre contingente, con la ricerca di costanti conferme. Che la decisione statunitense fosse parte della dottrina kennediana della risposta flessibile, non vi erano dubbi: gli Stati Uniti avrebbero reagito proporzionalmente alle minacce sovietiche, senza passare immediatamente all’attacco nucleare. All’interno di tale approccio dottrinario però, la condivisione degli armamenti nucleari veniva ridotta, e la vicenda italiana fu di questo rappresentativa. Infatti la marina italiana aveva già dal 1961 predisposto l’incrociatore Giuseppe Garibaldi ad equipaggiarsi con i Polaris, e progettato il Vittorio Veneto con la stessa caratteristica, solo che alla fine gli Stati uniti non conferirono i missili. In questo clima di costante ridefinizione, il presidente francese Charles de Gaulle nel 1966 decise l’uscita delle forze francesi dalle strutture integrate della NATO, compiuta l’anno successivo. Il peso della decisione francese fu ovviamente dirompente, e portò inedite trasformazioni alle strutture dell’alleanza. Nello scenario mediterraneo, il comando di Tolone fu chiuso e le sue competenze trasferite a Napoli. Nello stesso anno però anche il comando navale del Mediterraneo a guida britannica fu sciolto in seguito all’indipendenza di Malta e alla crescita di un orientamento neutralista dell’isola.

Dunque il NAVSOUTH di Napoli, che delle Forze alleate mediterranee ereditava il ruolo, fu attivato con la ristrutturazione organizzativa del 1967, divenendo pivot del comando marittimo per il Mediterraneo, non solo per quello centroccidentale di diretta competenza. Congiuntamente a questo rinnovato ruolo per l’Italia, si aprì una fase in cui la NATO iniziava anche ad elaborare un nuovo ruolo per il Mediterraneo. In sintesi, il bacino non era più soltanto il collegamento marittimo del fianco meridionale della NATO, ma un’area strategica di primo piano.

Il rapporto del Consiglio Atlantico sui compiti futuri dell’alleanza, presentato nel 1967 dal ministro degli Esteri belga Pierre Harmel, aprì un inedito processo di trasformazione della NATO.  Proprio nei suoi risvolti militari, il rapporto esaminò le “exposed areas” cruciali per la NATO, e la prima fra queste era il Mediterraneo. Effettivamente una rinnovata assertività sovietica stava spostando ingenti forze del Mar Nero oltre gli Stretti: da 1964 al 1970 il transito del naviglio sovietico triplicò, e dal 1965 la Flotta del Mar Nero schierò la sua Quinta “Eskadra” nel Mediterraneo, chiamata SOVMEDRON (Soviet Mediterranean Squadron) dalla NATO. Essa doveva bilanciare il potere della Sesta Flotta statunitense, tentando di orientare secondo gli schemi della guerra fredda i conflitti esistenti fra i Paesi rivieraschi come parte della strategia da anni avviata di costruzione di un campo “antimperialista” dei paesi extraeuropei. Di fronte alla SOVMEDRON la posizione turca era sì di prima linea, ma vincolata ai trattati di libera navigazione dagli stretti; la Grecia ancor più indebolita dal regime dei colonnelli, instaurato nel 1967; Francia e Gran Bretagna in ripiegamento per i motivi citati: l’Italia divenne fra gli stati rivieraschi l’alleato NATO politicamente di primo piano in Mediterraneo. Questo rafforzò la dimensione marittima dell’intervento delle superpotenze nel conflitto arabo-israeliano, infatti l’Unione Sovietica ampliava il sostegno al campo arabo, intensificando in particolare la cooperazione militare con l’Egitto tramite lo spazio marittimo. Se la guerra arabo-israeliana del 1967 fu influenzata dalla presenza russa, in termini tuttora dibattuti dalla storiografia, è invece fuori discussione il fatto che il naviglio sovietico alla rada ad Alessandria e Porto Said abbia dissuaso gli israeliani dal bombardare tali porti. Fra una guerra e l’altra, la presenza sovietica in Egitto compì la sua parabola, dacché alla vigilia della guerra del 1973 il presidente egiziano Anwar al Sadat espulse i consiglieri militari sovietici dal Paese. Nel corso delle trattative di pace, l’Egitto si avvicinò all’Occidente e alla NATO, mentre i sovietici tennero saldamente i porti siriani.

LE RADICI DEL PRESENTE

Nel 1969 in Libia un colpo di stato rivoluzionario instaurò la repubblica e aprì la lunga stagione dominata dalla figura di Muhammad Gheddafi, che si proclamava erede del panarabismo nasseriano. Questo rivolgimento dinamizzò ulteriormente la situazione, iniziando a costituire un’area di crisi nel mediterraneo che chiamava in causa gli italiani e la loro storia recente. In Italia nel corso degli anni Settanta, per un complesso di motivi non confinabile unicamente alla realtà interna, la causa palestinese raccolse inedite simpatie, e d’altronde le relazioni italiane con i Paesi arabi, Libia inclusa, si svilupparono ben oltre il sempre strategico orizzonte degli idrocarburi. Tuttavia sul piano strategico la rilevanza dell’isola di Malta si accrebbe proprio in relazione al nuovo regime libico, e furono gli italiani a condurre la politica verso l’isola nell’ambito degli alleati atlantici. Nel Mediterraneo orientale greci e turchi erano avvolti nelle spire della questione cipriota che impantanava gli stessi britannici, detentori sull’isola della strategica base di Akrotiri, dunque gli italiani erano effettivamente gli alleati NATO maggiormente disponibili a cogliere gli spazi politici che si aprivano nelle relazioni con i paesi rivieraschi.

Quando, su invito del presidente americano Jimmy Carter, il governo italiano fu coinvolto nel sostegno al processo di pace, con lo specifico obiettivo di agire sugli egiziani, l’intesa fra Italia e Stati Uniti in ambito mediterraneo fu ulteriormente rafforzata. Parallelamente gli italiani riuscirono ad inserirsi nella politica di neutralità maltese, ottenendo un accordo di tutela italo-maltese che di fatto escludeva non solo le aspirazioni sovietiche, ma soprattutto gli aggressivi interessi libici sullo spazio marittimo dell’isola. Così, nel corso degli anni Ottanta, le strutture NATO nel Mediterraneo furono sempre più chiamate in causa da crisi e interventi solo tenuemente legati alla difesa dall’espansionismo sovietico, vero o percepito che fosse, ma sempre più legati alla questione del terrorismo di matrice mediorientale quale minaccia alla sicurezza mondiale o più in generale a quelle aree di instabilità esterne al confronto bipolare, quale il golfo persico dopo la rivoluzione iraniana del 1979. La missioni delle forze multinazionali – a geometria variabile di Paesi partecipanti – videro l’Italia inviare dei contingenti militari per la prima volta dalla guerra di Corea, ma con la sostanziale differenza di un consenso interno mai tributato precedentemente. Valga ricordare il caso della forza multinazionale in Libano che, sebbene sotto egida ONU, impiegò le basi NATO italiane per una missione che permise l’evacuazione dei miliziani dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) da Beirut assediata delle forze israeliane.

I frutti di questa politica non tardarono, dacché nel corso degli anni Ottanta l’Egitto iniziò una collaborazione con la stessa NATO, ospitando e partecipando alle esercitazioni congiunte dal nome in codice “Operazione Bright Star”, ripetute su base tendenzialmente biennale fino ad oggi. Un avvicinamento notevole, che portò ancor di più la NATO nel gioco politico dei paesi MENA (Middle East and North Africa), con un’inevitabile esposizione delle strutture e del personale stesso. Valga qui richiamare un paio di episodi occorsi nel 1985-86, come il bombardamento israeliano del quartier generale dell’OLP, stabilitosi a Tunisi, che portò alcuni osservatori arabi a sospettare un supporto logistico NATO ai bombardieri israeliani; oppure la crisi diplomatica fra Italia e Stati Uniti attorno alla base di Sigonella, in Sicilia, derivata dal dirottamento della nave da crociera italiana “Achille Lauro”. Di altro tenore furono i raid statunitensi in risposta alle provocazioni libiche sul Golfo della Sirte, poiché essi segnarono una distanza del governo italiano da quello statunitense rispetto alla gestione delle mire di Gheddafi. Questo nonostante in Italia vi fosse allora uno dei governi più atlantisti della repubblica, presieduto dal socialista Bettino Craxi che aveva condotto il suo partito a promuovere lo schieramento dei missili BMG-109 Tomahawk e MGM-31 Pershing, i cosiddetti euromissili.

Nel 1989, l’avvio del collasso del sistema sovietico parve aumentare, se possibile, gli spazi per la politica italiana nel Mediterraneo e quindi gli spazi dell’Italia nella NATO, ma la crisi politica apertasi in Italia nel 1992 certamente ne ridimensionò le aspirazioni, senza eclissare del tutto le posizioni acquisite nell’ambito dell’alleanza. Su questo piano la stagione della Seconda Repubblica fu segnata dall’intervento nei Balcani, prima in Bosnia-Erzegovina e poi in Kosovo, dove l’Italia fu in prima linea verso un fronte fluido di allargamento della NATO ai paesi dell’Europa orientale. Ma l’Italia fu anche in prima linea nel ricercare un intesa NATO-Russia, che nel tramonto della Prima Repubblica fu vista come cardine d’azione. Il turbine della storia non ha permesso lo sviluppo di questa ipotesi, oggi ai minimi termini. Maggior fortuna ebbe il Mediterranean dialogue, promosso nel gennaio 1994 dal governo Ciampi, anche perché fu un’iniziativa di diverso carattere. Il Mediterranean dialogue ha creato un partenariato bilaterale dei paesi NATO con i paesi della sponda sud del mare, promuovendo la cooperazione, lo scambio di informazioni e in generale la concezione di sicurezza. Questo approccio ha incrementato senz’altro la qualità della public diplomacy, ma attraverso i programmi di partenariato ha reso possibili cooperazioni mirate, per esempio, al contrasto al terrorismo. Nel 2004 una ristrutturazione dei comandi crea l’Allied Joint Force Command (JFC)-Naples dal precedente AFSOUTH, prima nel quartiere di Bagnoli e poi dal 2012 a Lago Patria. All’interno del JFC è stata costituita, nel 2017, la NATO Strategic Direction South – Hub, che dallo spirito del Mediterranean Dialogue traduce linee operative verso i Paesi della sponda meridionale del mare. In mezzo sono avvenute le cosiddette primavere arabe, che hanno cambiato il panorama politico dei Paesi coinvolti nel Mediterranean Dialogue. Quando francesi e britannici sono intervenuti nell’insurrezione libica contro Gheddafi, il quadro politico italiano era fragile e frammentato. Non di meno, gli italiani sono riusciti a riportare l’intervento in un ambito NATO, evitando così un’azione meramente unilaterale che richiamava il pericoloso precedente del 1956. Si è trattato però di un contenimento delle forze centrifughe, essendo ancor oggi la Libia in balia delle milizie e priva di un vero stato nazionale. Ma se la politica estera italiana avrà la possibilità di intervenire nella conclusione della virulenta crisi libica, per essere efficace essa dovrà verosimilmente contare su una nuova azione concertata in ambito NATO.

Matteo Gerlini insegna storia e politica della ricerca scientifica nell’Università di Roma “La Sapienza”. È membro dell’Independent Scientific Evaluation Group del programma NATO Science for Peace and Security



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