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L’Italia? Resta fondamentale per la Nato. Parla Frusone

Di Giulia Altimari

La Nato “rappresenta tutt’oggi la più longeva alleanza militare esistente, la più riuscita della storia recente”. A spiegarlo è Luca Frusone, deputato del Movimento 5 Stelle e presidente della delegazione italiana dell’Assemblea parlamentare della Nato, che, in occasione dei 70 anni dalla firma del suo trattato fondativo, parla dei motivi che hanno reso tale l’Alleanza Atlantica, innanzitutto “la sua capacità di adattarsi ai differenti scenari politici internazionali”.

Presidente Frusone, ad aprile la Nato ha celebrato 70 anni dalla firma del suo trattato fondativo. In questo lungo periodo è molto cambiata. Che Bilancio ritiene si possa fare?

Prima di tutto occorre ricordare che la Nato rappresenta tutt’oggi la più longeva alleanza militare esistente, la più riuscita della storia recente. Uno dei motivi fondamentali che l’hanno resa tale è la sua capacità di adattarsi ai differenti scenari politici internazionali. Nella storia dell’Alleanza, la parola “trasformazione” ha assunto un valore vincolante per la sua sopravvivenza. Nata come blocco da contrapporre all’Unione sovietica, una volta venuta meno la guerra fredda ha saputo interpretare anche l’articolo 2 del Trattato. Quindi non solo la funzione di deterrenza in chiave di difesa collettiva. Ovviamente in 70 anni ci sono stati alti e bassi, errori ed adattamenti ma il ventesimo secolo ha avuto due guerre tremende in un intervallo brevissimo. Se in questo lasso di tempo più lungo non abbiamo avuto la terza è anche grazie alla Nato. Inoltre, come presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare Nato, non posso senz’altro ignorare il prezioso apporto che questa istituzione sta dando all’Alleanza. L’assemblea parlamentare ha svolto nel corso del tempo una funzione di raccordo tra la Nato e i suoi Stati membri. L’obiettivo primario è quello di colmare la distanza tra questi due universi, andando ad assottigliare il gap che naturalmente può venirsi a creare. Il nostro compito di delegati è anche quello di ricordare, o meglio non far dimenticare, l’importanza che il Patto Atlantico ha avuto e continua ad avere nella vita dei nostri cittadini. Con questo spirito, sono stato felice di aver organizzato insieme al Centro Studi Americani e l’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, “Nato at 70: present and future challenges”, un evento che ha permesso di ripercorrere la storia della Nato in questi 70 anni, approfondendo inoltre le nuove sfide che ci attendono.

Quali sono oggi il ruolo e l’importanza dell’Italia nell’Alleanza?

La Nato è stata sin da subito un punto di riferimento della politica di difesa italiana, ponendosi come parametro per le politiche di difesa nazionali in termini di organizzazione delle forze, dottrine operative, acquisizione e sviluppo dei sistemi d’arma. Come accennavo prima, la Nato è riuscita ad assolvere anche altre funzioni evolvendosi da mera alleanza militare per la difesa collettiva, ad organizzazione politico-militare che persegue un concetto più ampio ed olistico di sicurezza collettiva che vede nell’Italia un attore schierato in prima linea. La rapidità di reazione si è estesa con il tempo anche alle minacce ibride dei nostri tempi e questo è per l’Italia un know how essenziale. La presenza nella Nato permette sicuramente alle nostre forze armate di sviluppare e testare le proprie eccellenze, potendo utilizzare le migliori tecnologie esistenti. Ad esempio, l’esercitazione Cyber Coalition ha rappresentato anche nella sua ultima edizione un strumento importante per testare e migliorare le nostre capacità. Giunta nel 2018 alla sua undicesima edizione, l’esercitazione ha permesso di consolidare procedure internazionali di collaborazione tecnica, sotto il coordinamento dell’Allied Command Trasformation della Nato. In tale contesto il Comando Interforze per le Operazioni Cibernetiche (Cioc) ha coordinato la partecipazione nazionale, la cui condotta ha avuto luogo presso la sede del Comando in Roma ed ha visto il coinvolgimento del Team nazionale composto da operatori del Cioc e delle Forze armate. Inoltre ritengo fondamentale il lavoro svolto dal Nato Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence di Tallinn, in Estonia, che l’Italia supporta in qualità di Sponsoring Nation. Infatti il Centro di Eccellenza di Tallin, vero e proprio think tank internazionale, organizza, ogni anno, due esercitazioni: la Crossed Swords, evento riservato a personale tecnico dei Red Team e il Locked Shields.

L’Italia da anni pone al centro del confronto interno alla Nato il tema del Mediterraneo e del cosiddetto Fianco Sud. A che punto è, oggi, il dibattito su questo tema?

Per la Nato il Southern Flank ed il Mediterraneo, rappresentano e devono rappresentare sempre di più una priorità. Quando si parla di Fianco Sud parliamo di un insieme di scenari eterogenei di crisi che necessitano di politiche dedicate e soluzioni precise. L’area denominata Mena (Medio Oriente e Nord Africa) è stata soprattutto in questi anni caratterizzata dalla lotta a Isis e agli altri gruppi di matrice jihadista. I problemi economici, sociali ed ambientali sono i fattori chiave di questa situazione di costante insicurezza nella regione. L’estremismo violento ed i gruppi politici armati trovano linfa vitale da questi problemi, consentendogli di operare sul territorio con facilità, trovando terreno fertile per il reclutamento di nuovi combattenti. Per ovviare ai rischi derivanti da questa situazione, la Nato si è adoperata principalmente in operazioni di counterterrorism. Allo stesso tempo, come è stato più volte affermato anche dall’Assemblea parlamentare Nato, bisogna rinforzare la capacità di difesa dei Paesi alleati del Fianco Sud. Ed in questo l’Italia ricopre un ruolo fondamentale, volgendo lo sguardo dell’Alleanza verso il Mediterraneo. Tutto questo grazie anche al lavoro svolto dall’Allied Joint Force Command di Napoli anche attraverso la recente apertura del Hub Nato Strategic Direction South. Quest’ultimo rappresenta un centro di eccellenza, che vede lo sforzo congiunto di partner della Nato, in un approccio olistico e collaborativo volto al coordinamento, alla sincronizzazione e al raccordo delle attività dell’Alleanza rivolte a Sud, ottimizzando al contempo le risorse, massimizzandone così l’efficacia. Il tutto monitorando e valutando le dinamiche dell’ambiente operativo in quei contesti in cui il personale della Nato è dispiegato. Un vero e proprio forum di coinvolgimento e condivisione delle informazioni per il mondo civile e militare. Proprio in questa direzione è andato lo sforzo della nostra Delegazione nella recente sessione annuale dell’Assemblea tenutasi ad Halifax, dove è stata discussa ed approvata la Risoluzione n. 451 volta a “Rafforzare il contributo della Nato per affrontare le sfide provenienti da Sud”. L’obiettivo è quello di far comprendere l’importanza della questione anche per i paesi che per latitudini geograficamente differenti, possano percepire differentemente i rischi di un Mediterraneo nel caos. Inoltre ho voluto fortemente che gli atti approvati dall’Assemblea parlamentare della Nato iniziassero ad essere discussi anche all’interno delle nostre commissioni competenti. Ciò è avvenuto la prima volta lo scorso 15 maggio, dove la discussione sulla risoluzione n. 451 che citavo poc’anzi, si è conclusa in commissione Difesa ed Esteri della Camera dei Deputati, con l’ulteriore approvazione a prima firma del sottoscritto di un’altra risoluzione, più specifica in merito agli interessi strategici del nostro paese. La stessa risoluzione ha visto la sottoscrizione anche del collega Paolo Formentini, vice presidente della Delegazione, che l’ha discussa in commissione esteri. La risoluzione è stata votata all’unanimità e questo evidenzia il fatto che quando si parla in maniera approfondita di certi temi, si riesce a raggiungere un’unica visione nazionale, cosa non scontata al giorno d’oggi.

L’Italia è da sempre anche uno dei Paesi che hanno dato maggiore contributo all’Alleanza alle missioni passate e a quelle in svolgimento. Proseguirà su questa linea anche in futuro?

L’Italia darà sempre un contributo fondamentale sia da un punto di vista militare sia politico. Il lavoro dei nostri militari nelle missioni Nato è apprezzato a livello internazionale, soprattutto dalle popolazioni locali, fatto che ci rende particolarmente orgogliosi. Vorrei sottolineare il ruolo nell’addestramento delle forze locali che i nostri militari si sono ritagliati con gli anni grazie alla loro preparazione. Dovremmo puntare ancora di più su questo aspetto, mirando ad incrementare l’immagine che i nostri alleati hanno del nostro impegno, quasi a creare un sinonimo tra istruttore e personale italiano. Abbiamo un approccio umano e psicologico unico che può aiutare molto in determinati scenari, siamo i più bravi a farlo e lo vedo quindi come un nostro compito. Ovviamente l’impegno italiano continua anche nei confronti delle spese per la difesa, seppur la nostra battaglia, insieme a quella di altri Paesi, è di far entrare nel computo delle spese previste dal Burden Sharing anche quelle necessarie per il contrasto alle nuove minacce ibride. Come giustamente sottolineato anche dal ministro Elisabetta Trenta, l’Italia continuerà a sostenere che è giusto aumentare la spesa per la difesa, ma a condizione che la spesa per lo spazio, il dominio cibernetico e la protezione delle infrastrutture civili siano incluse nei calcoli del 2%. La regola delle 3C (Cash, Capabilities, Commitment) ha da sempre suscitato l’attenzione dell’opinione pubblica, concentrando tutta l’attenzione quasi esclusivamente sull’obiettivo del 2% del Pil (Cash). Vorrei sottolineare tuttavia la partecipazione delle nostre forze armate a nove missioni Nato, con una presenza importante, fattore che ci permette di essere il secondo contingente dopo gli Stati Uniti nelle operazioni dell’Alleanza. L’Italia, inoltre continua a presiedere importanti ruoli di comando come quello in Afghanistan ed in Kosovo. Quest’importante sforzo in termini di uomini e mezzi, non può passare in secondo piano rispetto ad altri parametri. Altro punto importante che riguarda direttamente anche l’interesse delle società civile è la necessità di trasparenza sui budget interni delle istituzioni della Nato. In questo il nostro sforzo sarà massimo.

Un tema di grande dibattito oggi è la cosiddetta Difesa Europea. Che rapporto immagina tra Nato e Ue per i prossimi anni?

Alcuni commettono l’errore di pensare che l’Europa possa sostituirsi alla Nato. A mio avviso l’Unione europea non è pronta per una difesa comune o un esercito europeo. Fino a quando non ci sarà una linea politica estera comune lo strumento militare non potrà essere impiegato adeguatamente e per questo l’Alleanza Atlantica è necessaria. Si rischia di fare lo stesso errore che si è fatto in materia di strumenti monetari adottati in assenza di politiche economiche e finanziarie comuni.

Quali sono le principali sfide, sul piano politico e strategico, che l’Alleanza Atlantica dovrà fronteggiare?

Ad oggi il più grande rischio della Nato viene proprio dai Paesi membri: la percezione che hanno i cittadini dell’Alleanza gioca un ruolo fondamentale. Oggi un ragazzo nato dopo la caduta del muro di Berlino, che domani sarà classe dirigente, perché dovrebbe investire in un’Alleanza nata per contrastare un nemico che non c’è più? Per questo diventa essenziale la capacità di rispondere adeguatamente ai nuovi scenari che si stanno configurando, mirando a farsi percepire come uno degli interlocutori principali su un tema come la lotta al terrorismo ad esempio, piuttosto che su tutte le sfide che oggi le nuove tecnologie rappresentano per la sicurezza. Per questo è importante considerare le innovazioni che stanno portando le Disruptive Technologies nei confronti della stessa difesa collettiva. Lo citavo prima: i conflitti attuali hanno ormai effetti asimmetrici che vengono amplificati dall’incredibile avanzamento tecnologico degli strumenti di offesa che mettono sotto stress le difese Nato. La velocità con cui gli attori, statali e non, sviluppano nuovi strumenti di attacco, costringe l’Alleanza ed i suoi membri a scongiurare il rischio di restare indietro su capacità chiave in aree militari decisive.  Per esempio pensiamo agli stessi sistemi non pilotatati (unmanned). I primi passi nel campo dei sistemi autonomi sono stati compiuti   dagli   UAV/APR   sviluppati   in   campo   militare.  Il Centro Alti Studi della Difesa ha analizzato che il futuro   prossimo   vedrà trasformazioni radicali in questo ambito.  Ad esempio piattaforme autonome potranno operare in sciami (spamming) in maniera collaborativa, e compiere uno spettro di missioni molto più ampio di quello attuale (oltre al tradizionale impiego in missioni di Intelligence, Surveillance & Reconnaissance, potranno effettuare compiti di jamming ,  supportare le reti di comunicazione, trasporto logistico, ecc..). La tecnologia odierna già permette un ciclo di identificazione e  ingaggio  di  un  obiettivo  in  maniera  autonoma , ma,  allo stesso tempo , le direttive di impiego  prevedono comunque l’elemento umano “in the loop” per giungere alla decisione di utilizzare la forza letale. L’impiego di sistemi ad elevato grado di autonomia nel campo di battaglia fa sorgere non poche perplessità di natura etico-legale.  Un’attenzione a questi sistemi e la capacità di dominare a pieno le potenzialità e i rischi di questi nuovi strumenti rappresenta un’importante sfida per la Nato che va di pari passo con quella del dominio cibernetico. Se mi permette una metafora: attualmente ci troviamo nel settore come quando Galileo vedeva la Luna con il telescopio. Adesso siamo atterrati e siamo sottoposti ad un’altra forza di gravità, un mondo da scoprire, e dobbiamo imparare a muoverci con altre regole. Abbiamo una lunga esperienza di coordinamento nell’operare con assetti terrestri, marini ed aeronautici. Non possiamo certamente dire la stessa cosa in merito allo spazio e al cyberspazio. Dobbiamo scrivere e provare le dottrine d’impiego e le regole “di buon vicinato”.


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