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G20 di Osaka, vi svelo la guerra valutaria sottotraccia (tra dollaro e yuan)

Il 28-29 giugno, il G20 si riunisce a Osaka, con il primo ministro Shinzo Abe che farà gli oneri di casa. L’ordine del giorno, come è prassi di questi eventi, è vastissimo: a) crescita economica e riduzione delle disuguaglianze; b) infrastrutture di qualità e salute; c) questioni globali come i cambiamenti climatici e i rifiuti di plastica negli oceani; d) economia digitale; e) sfide legate all’invecchiamento della popolazione. Un’agenda così ampia da scoraggiare gli osservatori. E probabilmente, questa è una delle ragioni per cui i giornali italiani sembrano dedicare poco spazio all’evento. Ne seguono, con un certo interesse, un unico aspetto – che però non attiene strettamente al G20 anche se sarà al centro del discorso iniziale del padrone di casa: la Abeconomics che, come scritto su questa testata alcune settimana fa, affascina parte della maggioranza di governo. Al di là dell’interesse italiano un po’ particolaristico di toccare con mano un Paese ad alto tasso d’invecchiamento, con uno stock di debito pari al 200% del Pil ed una leggera crescita economica, il G20 di Osaka è di grande rilievo per due aspetti, uno noto e l’alto sottotraccia. Il primo è il confronto tra multilateralismo e bilateralismo in materia di commercio internazionale. Il secondo è la invisibile ma verissima guerra tra le principali monete. Ci riserviamo di approfondire la dialettica su multilateralismo e bilateralismo commerciale, dopo il G20 (anche nella speranza che l’assise sia l’occasione per chiarire la posizione dell’Italia). Merita, invece, delineare la guerra valutaria sottotraccia.

TRUMP vs DRAGHI

Occorre ammettere che la brutale schiettezza del presidente degli Stati Uniti Donald Trump con il suo attacco al presidente della Banca centrale europea Mario Draghi (attacco, peraltro, non giustificato) ha avuto quanto meno il merito di mostrare che i rapporti tra le valute non veleggiano in un mare di calma piatta. Tuttavia, a mio avviso, è un errore, come ha fatto il maggior quotidiano economico italiano, sostenere che il centro della guerra valutaria sottotraccia è il rapporto dollaro-euro. Il perno è il cambio dollaro-yuan. In primo luogo, per la grande importanza che gli Stati Uniti danno al bacino del Pacifico, rispetto alla relativamente poca che attribuiscono ai litigiosi Stati del Continente che, a torto o ragione, considerano vecchio.

In secondo luogo, perché il cambio dollaro-yuan incide direttamente, e non poco, sulla guerra o guerriglia commerciale Usa-Cina. Per anni il cambio è stato attorno ai 6,7 yuan per dollaro. Ed è arduo considerarlo un cambio di equilibrio, dato i molteplici controlli valutari in vigore in Cina. Ed è anche alla base di una rete di accordi che Pechino ha con numerosi altri Paesi. Di recente, il presidente della Banca centrale cinese, Yi Gang, ha dichiarato a Bloomberg che la sua grande Nazione aspira a ‘maggiore flessibilità valutaria’ al fine di far sì che la moneta ‘fosse un più efficace stabilizzatore dell’economia’. Ha anche aggiunto che il rapporto 7 a 1 non è ‘affatto sacrosanto’. In breve, quasi una dichiarazione di guerra aperta, dopo mesi di conflitto sottotraccia. Attenzione, se il rapporto dollaro-yuan comincia a ballare, ci si possono attendere flussi di capitali verso monete rifugio come il franco svizzero e lo yen. Oppure verso l’oro. Che avrebbero implicazioni anche sul Vecchio Continente.

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