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Trump non cambia stile, nemmeno in Gran Bretagna. L’opinione di Gramaglia

Un intreccio tra l’ipocrisia britannica – la Regina che fa buon viso al cattivo gioco d’un palazzinaro che le stringe irritualmente la mano – e la schiettezza americana, il presidente che dice come la pensa senza giri di parole -; oppure, tra l’educazione di chi sa stare al mondo e la rozzezza di chi crede che potere e potenza vadano sbandierati con arroganza e malagrazia.

Con l’eccezione di Barack Obama, nel XXI Secolo è sempre la solita solfa, quando un presidente arriva in visita da Washington a Londra: proteste nelle strade – oggi, erano centinaia di migliaia a Trafalgar Square – e l’ospite quasi barricato nei Palazzi della Corona e delle Istituzioni britanniche.

Dove è persona non troppo grata. Incontrandolo, Theresa May accetta di bere fino in fondo il fiele del dovere e, al passo dell’addio – lascerà il 7 giugno –, offre al suo Paese l’ultimo sacrificio: essere cortesemente gelida con chi ha spesso usato nei suoi confronti toni offensivi, ha ripetutamente tifato in modo palese per il suo grande rivale tory, il ruvido ma efficace ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri Boris Johnson, e ha “fatto comunella” con tutti i partiti guidati da Nigel Farage, Ukip prima e Brexit ora. Anche il sindaco di Londra Sadiq Aman Khan, musulmano, ha subito gravi attacchi dal magnate presidente, che gli ha dato dello “stupido”. Jeremy Corbin, il leader dell’opposizione laburista, ha declinato l’invito reale a incontrare l’ospite americano.

Dal punto di vista dei contenuti, c’è profondo scetticismo sull’utilità di colloqui e contatti. Il clima nei confronti di Trump s’è talmente deteriorato in Gran Bretagna che The Guardian afferma senza eufemismi: “Il presidente non è il benvenuto”. E il Washington Post esprime la certezza che Trump non riuscirà a migliorare le relazioni tra Stati Uniti e Regno Unito. Un’azzeccata vignetta di Uber, arguto disegnatore, mostra il presidente in versione Cristoforo Colombo mentre vende perline e cianfrusaglie a un Nigel Farage che si compra tutto, pronto a fare credere ai suoi connazionali che sono gioielli preziosi, che il ritorno della “relazioni privilegiata” è imminente. Se li si lascia fare, Donald e Nigel confezionano la Brexit in quattro e quattr’otto: “no deal”, frontiera chiusa fra le due Irlande e un Regno Unito suddito della sua ex colonia.

Trump, il presidente in versione commesso viaggiatore, recita a Londra il prologo delle celebrazioni per il 70esimo anniversario del D-Day e dello Sbarco in Normandia: un’altra America, quella del ’44 e della “grande generazione”, e un’altra Inghilterra, quella di Winston Churchill capace di “lacrime e sangue” – questa della May è tutta “lacrimucce e dispettucci” -. Cementare alleanze non è il suo forte: lui mette zizzania, cerca di dividere i suoi partner – alleati o avversari che siano -, pensa all’America e agli affari suoi. Chissà con che spirito i leader del Mondo divenuto Libero anche grazie al D-Day lo incontreranno sulle spiagge britanniche e francesi nelle prossime 48 ore: il presidente statunitense era un punto di riferimento, ora li prende tutti a dazi e sanzioni e rimbrotti e prende a prestito le parole d’un dittatore come Kim Jong-un per parlare dei suoi rivali politici interni.

In Gran Bretagna, il sito di The Trump Organization annovera la proprietà in Scozia di resort, cioè tenute con alberghi di lusso e campi di golf, a Turnberry e Aberdeen, e di una società immobiliare, la McLeod House & Lodge. Trump era a Turnberry, per inaugurarvi il resort, il 23 giugno 2016, non a caso il giorno della Brexit, per la quale aveva fatto campagna e il cui successo salutò come fosse una sua vittoria. Gli diedero corda gli inglesi nostalgici della “relazione privilegiata” con gli Stati Uniti, che credevano di ritrovare dopo la Brexit; ma certo trangugiarono amaro gli scozzesi, che erano e che sono contro la Brexit e che sarebbero pronti a barattare la permanenza nell’Ue con l’uscita dal Regno Unito, riscattando, secoli dopo, Braveheart e Maria Stuarda.

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