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Africa, luci e ombre dell’area di libero scambio. Report Cesi

Cinquantaquattro Stati africani hanno firmato l’accordo per il libero scambio commerciale nella regione. L’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), siglato il 7 luglio 2019 a Niamey, Niger, intende eliminare in maniera progressiva i dazi doganali per facilitare la circolazione di beni, prodotti e materia prima. Un accordo che sarà applicato su un mercato di 3,4 trilioni di dollari e ha come modello quello dell’Unione europea. Facendo parte dell’ampio progetto sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite per l’anno 2030, l’obiettivo principale di quest’accordo è ridare dinamismo all’economia dell’Africa.

A FAVORE DEL DINAMISMO

Per capire la dimensione del trattato, e le conseguenze positive e negative, il Centro Studio Internazionali ha pubblicato un report intitolato “L’Africa diventa un’area di libero scambio: pro e Contro dell’accordo di Niamey”. Secondo lo studio, con l’area di libero scambio si prevede un aumento del commercio tra l’Africa e il resto del mondo di circa 2,8%: “Allo stesso modo, il peso del commercio intra-africano sugli scambi commerciali totali del continente passerebbe dal 10,2% al 15,5%, con un aumento del 52,3% rispetto alle proiezioni per il 2022”. I settori più beneficiati sarebbero quello agricolo e quello industriale.

Tra i vantaggi, meno tempi morti in dogana e procedure più brevi ed economiche, così come una considerabile riduzione delle tasse doganali. Inoltre, “la possibilità di assorbire più facilmente i prodotti manifatturieri. Infatti, essi sono poco richiesti sul mercato internazionale extra-continentale, ovvero negli scambi commerciali con l’Europa, l’America e l’Asia, che favoriscono invece l’importazione dall’Africa di materie prime”, si legge nel report. Tutto ciò aiuterebbe a rendere più attiva l’economia del continente africano.

UN MERCATO UNICO 

Tuttavia, la strada verso una totale zona di libero scambio non è spianata. Nonostante la buona volontà dei Paesi membri, le difficoltà da affrontare sono tante. C’è per esempio il fatto che le transazioni commerciali all’interno della regione sono molto basse. Lo studio del Centro di Studi Internazionali indica che “la percentuale di commercio interno in Africa sub-sahariana si aggira intorno al 10%, mentre i maggiori partner commerciali dei Paesi africani sono Unione Europea e Stati Uniti”. Una realtà dovuta non solo alle condizioni delle infrastrutture in Africa ma anche ai costi dei trasporti. Gli africani, dunque, sono più incentivati a fare affari con gli stranieri.

C’è un altro problema che risiede nella difficoltà della formulazione dell’accordo: “Il libero movimento di beni e servizi non può prescindere dal libero movimento delle persone, che invece è ancora fortemente soggetto a impedimenti nel contesto africano, dove ottenere un visto per un Paese confinante può essere molto difficoltoso”.

Inoltre, la scarsa differenziazione del mercato africano promuove l’importazione dall’estero perché i mercati dei Paesi africani non sono complementari. Per avere l’ambizione di diventare un mercato unico, l’Africa “deve essere capace di creare al suo interno le cosiddette catene di valore globale – spiega il report -. Ciò significa che all’interno dell’area devono essere presenti alcuni Paesi che esercitano un’economia centrale, ovvero ospitano le sedi delle grandi aziende e multinazionali, mentre gli altri Paesi dovrebbero costituire invece le cosiddette economie ‘di fabbrica’, ovvero quelle economie che forniscono forza-lavoro e prodotti intermedi”.

IL CONFRONTO CON L’UE

Il report stabilisce un paragone con il modello dell’Unione europea, a cui il trattato africano si ispira chiaramente. A differenza del mercato unico europeo, limitato ai “criteri di Copenaghen”, “l’accesso all’area di libero scambio africana (sebbene sia opportuno precisare che non è propriamente un mercato unico) è stata aperta a tutti gli Stati africani, indipendentemente dalle loro condizioni economiche, politiche e sociali”. Con la difficoltà di renderlo inefficace per alcune economie.

Infine, lo studio conclude che il trattato di libero commercio africano è un evento storico, che sottolinea la volontà politica dei Paesi coinvolti di impegnarsi a favore di un’economia più prospera: “La speranza è quella che l’integrazione economica porti a un’integrazione politica, ancora una volta richiamandosi al progetto europeo […] (Ma) perché esso si realizzi efficacemente e senza incidenti, sarà necessario il supporto di organizzazioni internazionali come l’Unctad o il Fondo Monetario Internazionale. Questo aiuto dovrebbe però essere gestito in modo tale da mantenere un equilibrio tra la necessità dell’Africa di appoggiarsi alle istituzioni multilaterali internazionali e il rispetto dell’autodeterminazione africana, con le opportunità e i rischi che ciò comporta”.


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