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Cina e Russia crescono nei Balcani. E in Ue si torna a parlare di allargamento

Di Valerio Cartocci

Nonostante il tema dell’allargamento non sia stato certo preponderante durante la campagna elettorale per le elezioni europee, negli ultimi mesi l’attenzione dell’Unione Europea verso i Balcani si sta risvegliando. Il 29 maggio Federica Mogherini, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha pubblicamente riconosciuto i progressi fatti da Albania e Macedonia del nord (ex Fyrom) affermando che: “hanno fatto la loro parte, ora i progressi compiuti vanno riconosciuti”. Queste dichiarazioni succedono di poche settimane le visite del Commissario europeo per la politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento, l’austriaco Johannes Hahn, in Bosnia Erzegovina e in Serbia.

IL PROCESSO IN CORSO

Albania, Macedonia del nord, Serbia e Montenegro hanno lo status di candidati, Bosnia-Erzegovina e Kosovo quello di potenziali candidati. Annunciata da Jean-Claude Juncker nello State of the Union 2017, la Commissione europea ha presentato nei primi mesi del 2018 “A credible enlargement perspective for and enhanced EU engagement with the Western Balkans”. La situazione dei Paesi dei Balcani occidentali è al momento differenziata: mentre Serbia e Montenegro hanno già iniziato e stanno portando avanti molto faticosamente i negoziati con l’Unione Europea, Bosnia Erzegovina, Macedonia del nord, Albania e Kosovo no. Il Consiglio Europeo il mese scorso ha rinviato l’avvio dei negoziati di adesione per Albania e Macedonia del nord, replicando quanto stabilito a giugno 2018 (si tornerà sul tema, forse, in autunno). A rallentare il processo di adesione, oltre ad un livello di fiducia in caduta libera da parte dei cittadini balcanici nell’Unione Europea, sono – almeno formalmente –  i temi ormai i noti: democrazia, giustizia, riforme, corruzione e dispute regionali irrisolte.

 DEEPENING VS WIDENING

Un allargamento nei Balcani potenzialmente potrebbe portare a un’Europa a 33 (per la Turchia le porte sembrano chiuse), ciò riporta a galla la vexata quaestio del deepening versus widening. Su questo tema si sono sviluppate scuole di pensiero opposte: ad una visione dell’Unione Europea a membership ristretta che procede agilmente nel percorso di integrazione progressiva, si contrappone l’idea di accrescere l’estensione dell’Unione senza soluzione di continuità fino ai suoi confini “naturali” per formare un blocco territoriale coeso. Il dibattito ha raggiunto la massima asprezza in relazione agli allargamenti del 2004 (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Cipro, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania e Malta) e del 2007 (Romania e Bulgaria). Negli anni successivi, escludendo l’ingresso indolore della Croazia nel 2013, la crisi economica, le tendenze disgreganti ed il rallentamento del processo di integrazione hanno arrestato il processo di allargamento dell’Unione. Sulla prevalenza tra queste due visioni incidono ovviamente non solo gli aspetti specifici stabiliti nei trattati (articoli 6 e 49 Tue), ma soprattutto gli equilibri storici e politici esterni e interni.

GLI ALLARGAMENTI DEL 2004 E DEL 2007

Gli allargamenti del 2004 e del 2007 sono inquadrabili in una più generale strategia di integrazione occidentale dello spazio europeo post-sovietico. Dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia nel 1991, il blocco di Paesi dell’Europa orientale viene inviato ad unirsi alla Nato, ingresso che si concretizza tra il 1999 ed il 2002 (insieme alla Partnership for peace con Mosca).  Il vasto allargamento ad est dell’Unione Europea segue, rafforza e completa la linea di accoglienza degli ex Paesi europei del socialismo reale all’interno della famiglia europea e, più in generale, occidentale. L’ingresso di questi Paesi ha rappresentato il corollario politico fondamentale dell’integrazione politico-militare, mentre la Nato garantiva la sicurezza, l’Unione Europea offriva prospettive ineguagliabili di sviluppo civile ed economico. Forzando questa tesi e azzardando un paragone, si potrebbe giungere ad affermare che sotto questi punti di vista, mutatis mutandis, la situazione dei Balcani occidentali oggi potrebbe non essere così distante da quella dei Paesi del blocco sovietico agli inizi degli anni ’90: un passato turbolento, una economia arretrata, alti livelli di corruzione e dispute territoriali irrisolte.

GLI INTERESSI IN GIOCO

Come per gli allargamenti del 2004 e del 2007 il fattore dell’integrazione dello spazio europeo post-sovietico ha giocato un ruolo cruciale, potrebbero essere nuovamente delle condizioni esogene a sbloccare il processo di allargamento. I Balcani hanno sempre rappresentato, e continuano a costituire, uno spazio politico centrale nella definizione degli equilibri tra oriente e occidente, un terreno su cui le potenze, europee e non, si sono sempre misurate e scontrate. Oggi i Balcani sono da un lato al centro dell’interesse della Russia, che tradizionalmente guarda alla penisola come area di influenza e come sbocco strategico della propria politica di potenza. Mosca, favorita da legami storici e culturali, continua a sviluppare nei Balcani la propria politica estera, ora tornata ad essere assertiva e aggressiva verso l’Occidente. Allo stesso tempo, soprattutto per ragioni geografiche e commerciali, è difficile immaginare che l’intera penisola venga facilmente tagliata fuori dai progetti globali cinesi di influenza commerciale e politica. La Nuova via della seta infatti interesserebbe i Balcani sia da un punto di vista terrestre (corridoio centrale), sia marittimo (estensione continentale della Maritime Silk Road).

UN NUOVO ALLARGAMENTO ESOGENO?

La minaccia di una considerevole e crescente presenza russa e cinese nei Balcani, cioè all’interno dell’Europa e del Mediterraneo, potrebbe costituire una preoccupazione sufficiente per spingere l’Unione Europea a superare il proprio momento di impasse e di debolezza, dettato soprattutto da ragioni interne, per riprendere coraggiosamente il filo della propria politica estera nei Balcani e imprimere una accelerazione decisiva al processo di allargamento. Non sarebbe comunque un successo semplice: se per alcuni Paesi dei Balcani (ad esempio Albania, Macedonia del nord e Kosovo) l’integrazione occidentale è la prospettiva migliore, per altri le condizioni politiche, storiche, economiche e culturali (il governo serbo si definisce europeista e russofilo) renderebbero l’operazione molto più complicata. Ciò che rimane da notare, tornando al paragone con i precedenti allargamenti, sarebbe il capovolgimento del movente esogeno. Mentre nel primo caso si è trattato di una spinta propositiva e costruttiva di integrazione da parte dell’Unione Europea, e dell’Occidente tout court, rispetto a eventi esterni, in questo caso si tratterebbe di una scelta “difensiva” dettata da possibili minacce esogene, ma comunque saggia.

Valerio Cartocci ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle relazioni internazionali nel 2016 presso l’Università degli studi di Firenze. Le sue aree di ricerca sono la storia della politica estera italiana, i Balcani e la fine della Guerra fredda


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