Il discorso con cui Boris Johnson, presentando la sua squadra alla Camera dei Comuni, si è insediato a Downing Street non ha trovato spazio sulla stampa italiana. Tutta tesa, in questi giorni, a trovare analogie screditanti del nuovo premier inglese con sovranisti e populisti di mezzo mondo, a cominciare ovviamente da quelli di casa nostra.
In verità, BoJo non è affatto un “clown” o un ”giullare”, come pure si è letto, ma uno dei più colti giornalisti e scrittori inglesi di storia, diplomato a Eton e membro a pieno titolo della migliore élite cosmopolita d’Oltremanica. Egli è poi un conservatore a tutto tondo, con una “visione” e idee ben precise che, con tenacia e determinazione, cercherà sicuramente di rendere concrete. La sua eccentricità e stravaganza, la sua vita a dir poco tumultuosa e irregolare, è una delle cifre caratteristiche da sempre di alcuni esponenti di quella classe dirigente formatasi ad Oxford Bridge a cui, come ci ricorda Lorenzo Castellani su List, l’anticonformismo viene insegnato sin dai banchi universitari. Una tipica virtù inglese, che purtroppo, in tempi di politically correct, viene del tutto dimenticata.
E come un richiamo ai migliori valori della Old England può essere letto tutto il discorso d’insediamento. Il “brand” inglese, ha sottolineato Boris, “è ammirato in tutto il mondo per la nostra inventiva, il nostro humor, le nostre università, i nostri scienziati, le nostre forze armate, la nostra diplomazia; per le uguaglianze su cui ci fondiamo e per i valori per cui ci battiamo in tutto il mondo”. I pilastri fondanti dello speech sono stati una serie di argomenti tipicamente conservatori (e liberali) e un certo stato d’animo.
Cominciamo da quest’ultimo, che lo distingue nettamente dalla retorica grigia e burocratica di certa politica vecchio stampo, ma anche da una retorica fondata sul risentimento e la rabbia quale è propria di molti fra i cosiddetti “populisti”. Quello di Boris è stato un discorso esplicitamente ottimista e che ha voluto trasmettere ottimismo: un discorso non del “no”, ma del “sì” e del fare. Le virtù nazionali sono state richiamate come un serbatoio di energie da utilizzare subito per ribaltare ogni visione apocalittica e fare della Brexit una opportunità, come sempre i britannici hanno saputo fare in ogni tempo al cospetto di ogni “traversia” capitategli (ammesso e assolutamente non concesso che in questo caso di traversia si sia trattato). Un pessimismo avvalorato, nei tre anni che ci separano dal referendum sull’uscita dall’ Europa, dall’indecisionismo di Theresa May (che BoJo ha comunque formalmente ringraziato) e dall’aver trasmesso al mondo l’idea che proprio “la patria della democrazia sia incapace di onorare il mandato democratico di base”.
Un sonoro schiaffo, non c’è che dire, ai tanti fautori, più o meno palesi, anche nostrani, dell’epistemocrazia (cioè il “governo dei competenti”) . La vera élite di una democrazia rappresenta e incanala i sentimenti popolari verso sbocchi positivi, non impone al popolo (ritenuto “ignorante”) le sue idee (presunte “giuste” e “corrette”). Quanto agli argomenti, cioè all’agenda di governo, sono quelli del conservatorismo classico inglese, intriso di liberalismo: la sicurezza, la sanità pubblica, l’istruzione, le infrastrutture, la produzione, senza dubbio. Ma anche l’impresa privata, la libertà di espressione, l’habeas corpus, lo Stato di diritto, la capacità di attrarre investimenti anche con la leva fiscale, la ricerca, l’abolizione di qualsiasi regolamento che limiti lo sviluppo delle bioscienze. E, in più, un tocco leggermente eccentrico ma in salsa english: l’attenzione al verde e persino al benessere degli animali. Altro poi che nazionalismo isolazionista! La Gran Bretagna deve recuperare, per Boris, il suo storico “ruolo davvero globale, che guarda avanti, intraprendente, generoso nel temperamento e impegnato nel mondo”. E altro che protezionismo “sovranista”!
Il governo inizierà stipulando accordi di libero scambio perché “è il libero scambio che ha fatto più di ogni altra cosa per tirare fuori dalla povertà milioni di persone”. L’aria di sufficienza mostrata in questi giorni a livello europeo, di una Unione Europa attraversata fra l’altro da spaccature e divisioni, a me sembra veramente fuori luogo.
Siamo proprio sicuri che, con la Brexit, sia il Regno Unito a perderci e non noi?