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F-35, la scelta (urgente) di Conte e il fattore turco

Il dossier F-35 è nella mani di Giuseppe Conte, ma i tempi stringono. Il Paese ha bisogno di una decisione rapida, sia per mantenere saldi i rapporti con gli Stati Uniti, che da tempo ci chiedono conferme, sia per preservare il ruolo industriale espresso dallo stabilimento di Cameri, su cui tardano i riferimenti per il lavoro dal 2024 in poi. Accanto ai rischi ci sono però le opportunità. Le ultime arrivano dalla Turchia, ormai fuori dal programma internazionale dopo l’arrivo del sistema russo S-400, come confermato dal neo capo del Pentagono Mark Esper. Il contributo dell’industria turca andrà riallocato; l’occasione c’è, ma passa per la scelta del premier.

LE PAROLE DELLA TRENTA

Ieri, nell’intervista ad AdnKronos, il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha ribadito che sul dossier “è Conte che dovrà definire la questione”. Questa volta ha però aggiunto un ulteriore elemento: l’urgenza. “Dovremmo farlo abbastanza presto, perché è necessario decidere cosa fare”. D’altra parte, la valutazione tecnica sulla partecipazione nazionale al programma era stata avviata dal dicastero di palazzo Baracchini sin dalle settimane successive all’insediamento della Trenta. Si è conclusa qualche mese dopo, arrivando così a palazzo Chigi in attesa di una decisione del premier. Decisione che tuttavia non è ancora arrivata, aumentando l’incertezza sulle intenzioni italiane soprattutto rispetto all’attesa già manifestata a più riprese dall’alleato d’oltreoceano.

I RAPPORTI CON GLI STATI UNITI

L’amministrazione targata Donald Trump non ha mai fatto segreto dell’importanza che attribuisce al programma Joint Strike Fighter, sia come potenziamento operativo di Usa e alleati nell’ottica dell’interoperabilità, sia soprattutto come strumento di rafforzamento dei rapporti strategici. Ne è un esempio recente il rilancio della relazione con la Polonia, suggellato durante la visita a Washington del premier Andrzej Duda con il primo volo di un F-35 sopra la Casa Bianca. Varsavia ha infatti contestualmente ufficializzato la richiesta per 32 velivoli di quinta generazione, parallela alla dichiarata intenzione di essere partner privilegiato degli Stati Uniti nel Vecchio continente. Un ruolo a cui ambisce anche l’Italia, che tuttavia conserva un mistero sugli F-35 non certo gradito al di là dell’Atlantico.

I TEMPI STRINGONO

Oltre gli aspetti strategici e politici, ci sono però anche quelli industriali. L’urgenza è in questo senso evidente. L’Italia, come specificato dal nuovo Documento programmatico pluriennale (Dpp 2019-2021) della Difesa, è impegnata all’acquisto di 28 velivoli totali fino al 2022, comprendenti gli F-35 dei lotti di produzione fino al quattordicesimo. Per i successivi (dal 15, che scatterà nel 2023), come hanno fatto gli altri Paesi aderenti al programma, l’impegno andava ufficializzato entro dicembre dello scorso anno. Cinque anni sono infatti necessari alla programmazione industriale per poter inizializzare il processo produttivo, a partire dalla preparazione della catena di fornitura con i cosiddetti ordini “extra long lead items”. L’Italia tuttavia non si è ancora impegnata, registrando un ritardo di sette mesi che, se non colmato subito, rischia di avere ricadute importanti sul sito novarese di Cameri (cuore della partecipazione nazionale al programma) dal 2023, quando cioè la produzione degli aerei italiani previsti fino ad ora sarà finita. Ciò alimenta interrogativi sul futuro dei circa 1.100 lavoratori dello stabilimento, ma anche su tutta la catena di fornitura distribuita sul territorio nazionale.

IL FATTORE TURCO…

Se ciò non bastasse a comprendere l’urgenza di un scelta chiara, ecco intervenire il dossier turco. Le parole di Donald Trump di ieri, e quelle di Mark Esper di oggi, hanno certificato l’incompatibilità della partecipazione turca al programma Joint Strike Fighter con l’acquisto del sistema russo S-400. Con la prima consegna ad Ankara ultimata, è arrivato lo stop quasi definitivo agli F-35. Ciò riguarda anche il nostro Paese. Già ad aprile infatti, quando una prima sospensione dagli Usa aveva toccato equipaggiamenti di supporto e forniture per i velivoli turchi, il Pentagono informava di aver “avviato i passi necessari per garantire la pianificazione e la resilienza della catena di fornitura; fonti secondarie di approvvigionamento per le parti prodotte in Turchia – si diceva – sono in fase di valutazione”. Difatti, con un impegno previsto per 100 velivoli, all’industria turca era assegnata la realizzazione di diverse componenti per gli F-35 destinati alla propria Aeronautica e ad altri Paesi, compresi quelli americani. Con l’esclusione, la produzione va riallocata, con la possibilità di ulteriore lavoro per altri partner del programma.

…A DUE CONDIZIONI

L’Italia potrebbe esserne interessata con Cameri, unica linea in Europa per l’assemblaggio e la verifica finale dei velivoli di quinta generazione. Lì, tenendo a mente il suddetto rischio post-2023, può vantare competenze di primo livello nell’ambito del Joint Strike Fighter, assemblando i velivoli italiani e olandesi, e realizzando diversi assetti alari. L’occasione dell’esclusione turca è ghiotta, ma a due condizioni. Primo, occorre confermare al più presto l’impegno attuale sui 90 velivoli, considerando che, come ha notato la Trenta, i tempi stringono. Secondo, c’è bisogno di farsi trovare preparati nel proporre il sito di Cameri e le competenze acquisite dalla filiera (Pmi comprese) per la sostituzione della produzione turca. Certo, ciò rischia di essere impossibile senza manifestare ora gli impegni nazionali. Difficilmente potremmo tentare di avere più lavoro (anche per i velivoli richiesti da altri Stati, Belgio in testa) se, come Paese, non ci mostriamo per primi convinti delle possibilità.

MESSAGGI DA TENERE A MENTE

Su questo gli appelli al governo si susseguono da diversi mesi, da esperti, addetti ai lavori e vertici delle Forze armate. Sul tema, a marzo, il Consiglio supremo di Difesa convocato dal presidente Sergio Mattarella aveva sottolineato “il carattere di continuità, anche finanziaria, che deve necessariamente caratterizzare i programmi di ammodernamento che si sviluppano su orizzonti temporali particolarmente lunghi”. Il mese successivo, un’indicazione era arrivata dall’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Lewis Eisenberg: nel caso di una revisione al ribasso degli attuali impegni, il nostro Paese, “come partner e non come semplice acquirente, rischierebbe di sprecare un’opportunità incredibile per rafforzare ulteriormente la propria industria della difesa e spingere in avanti la propria economia”.

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