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Spie, informatori e faccendieri. La guerra (fredda) non è finita

Unicamente pochi illusi hanno pensato che con la caduta del Muro di Berlino la guerra (fredda) fosse finita: questa è la lezione principale che si trae dall’intrigo sulle conversazioni all’Hotel Metropole di Mosca. La magistratura sta indagando su quanto di vero, quanto di falso, quanto di millantato c’è nelle registrazioni da qualche giorno su tutti i giornali e nelle notizie che appaiono ogni giorno. Quali che siano eventuali aspetti penali, le informazioni certificano comunque che la guerra (fredda) è sempre continuata, con il suo contorno di spie, informatori, faccendieri e quant’altro, È probabile che il personale di questa guerra fredda è meno professionale di quello di un tempo e anche che, sperando in guadagni elevati, vi si infiltrino Mata Hari da strapazzo e aspiranti Cagliostro da dozzina. Tuttavia, anche per le “anime belle” che hanno contato sulla “fine della storia”, la “vittoria della liberal democrazia” ed un periodo lunghissimo di pace e prosperità – tra queste “anime belle” includo il mio amico Francis Fukuyama – dovrebbe ora essere chiarissimo che la guerra (fredda).

Non ne è ho mai dubitato. Sono cresciuto in un’Europa in cui imperversava la guerra (fredda) ed in cui sapevo da che parte stavo. A 22 anni ho potuto continuare a studiare grazie a borse di viaggio finanziate dai contribuenti americani e a borse di studio rese possibili da filantropi americani; a 26 anni, sono tornato negli Usa, con mia moglie ed con 300 dollari in tasca, in due. Ci sono rimasto oltre 15 anni, compiendo un’intera carriera in Banca Mondiale. Là sono nati i nostri figli. Là ho imparato a lavorare ed ad avere la massima intolleranza nei confronti degli intolleranti. Forse, ho pure appreso un po’ di generosità.

Ho nella parete del mio studio una foto incorniciata del 1966: cinquanta studenti europei e cinquanta americani – era il primo anno di un Master alla Johns Hopkins University (Bologna Center) – in visita allo SHAPE (sede del Supremo Comando Alleato) allora a Parigi – un’esperienza fondante.

Uno dei miei più cari amici (e padrino di mia figlia) è un americano che, dalla fine degli studi all’età della pensione (ed anche successivamente nella veste di consulente) ha sempre lavorato a Langley, Virginia, per l’intelligence Usa. Sino all’inizio degli anni ottanta, lavorava come analista economico sull’Unione Sovietica. Dopo il crollo del muro di Berlino il suo lavoro è aumentato: coordinava gli informatori degli americani in Russia e vigilava su quelli di Mosca negli Stati Uniti. È sempre stato riservatissimo sulle specifiche dei suoi incarichi. La mia impressione è che la qualità di spie ed informatori fosse diminuita.

Dato che la guerra (fredda) continua, è vitale sapere da che parte si sta. Per coloro che credono nell’Unione europea (Ue), la situazione era abbastanza semplice sino all’ingesso di Donald Trump alla Casa Bianca: mentre gli Usa sostenevano il processo d’integrazione europea, era chiaro che Mosca aspirasse a relazioni bilaterali con i singoli Stati e non vedesse con favore una “sempre più stretta” Ue. Ora la situazione è cambiata poiché sia la Casa Bianca sia il Cremlino vogliono rapporti bilaterali con i singoli Stati. Washington, però, ha fatto capire ai propri interlocutori che non ama chi ha rapporti troppo stretti con Mosca; ciò spiega la mancanza di calore (almeno apparente) di alcuni leader italiani durante la recente visita di Putin a Roma.

Per “atlantici” come me, la scelta è netta. Si racchiude in una canzonetta di George M. Cohen, prolifico autore di commedie musicali, e protagonista di Broadway dagli anni venti agli anni quaranta del ventesimo secolo: “Overthere, overthere, there are yankees everywhere, everywhere!” (“Laggiù, laggiù ci sono yankee da per tutto, da per tutto!). È una canzone leggera, allegra, gioiosa, pur se con un pizzico di melanconia per la lontana terra natia. Composta, inizialmente, per una commedia in musica a sfondo patriottico (“Anna, get your gun!”, “Anna, prendi il fucile”) diventò il “tune” più fischiettato, oltre che cantato, dai soldati americani nella Prima Guerra Mondiale; si racconta che lo stesso Hemingway la canticchiasse negli altipiani di Asiago così ben descritti in “A farewell to arms” (“Addio alle armi”). Diventò, poi, una delle canzoni più care alle truppe Usa, soprattutto quelle sul fronte europeo, negli anni quaranta. L’ultima inquadratura di un film biografico in bianco e nero, su George M.Cohen, mostra Roosevelt il quale sbircia (e saluta) da una finestra della Casa Bianca, soldati che sfilano a Pennsylvania Avenue al ritmo di “Overthere, overthere, there are yankees everywhere, everywhere!”.

Perché “Overthere”? In primo luogo, è la canzonetta più diffusa e più cantata, senza alcun imprimatur ufficiale, dai milioni di ragazzi americani che due volte nel secolo scorso varcarono l’Atlantico in missione di pace in un Vecchio Continente che aveva innescato la miccia del proprio suicidio. In secondo luogo, questi ragazzi (molti dei quali venivano dall’immenso Mid-West e non avevano mai visto il mare prima di imbarcarsi alla volta dell’Europa) erano pacificatori, come lo sono i nostri (e non solo i nostri) nella tormentate terre dell’Iraq, dell’Afghanistan, ed altrove. Con generosità estrema, molti di loro, per dare la pace e la libertà a noi, sarebbero rimasti sul suolo europeo, in immensi cimiteri da Anzio alla Normandia. In terzo luogo, meglio di molti concioni ufficiali, la canzone di G.M. Cohen esprime quella massima fondamentale di Voltaire, iscritta in marmo nel suo villaggio natale ai confini tra Francia e Svizzera, spesso dimenticata da noi ma metabolizzata negli Usa: l’intolleranza deve essere massima nei confronti degli intolleranti. Oggi ciò vuol dire che l’intolleranza deve essere massima nei confronti di chi non tollera i nostri valori europei.

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