(Intervista tratta da I-Com)
Li chiamano Neet, letteralmente “neither in employment nor in education or training” o “not in education, employment or training” e sono i ragazzi e le ragazze di età compresa tra i 20 e i 34 anni che non studiano né lavorano. Ostaggi del limbo che li tiene bloccati tra formazione e occupazione, sono diventati numerosissimi in Italia. E a confermarlo sono i dati diffusi nei giorni scorsi dall’Eurostat: un giovane italiano su quattro si trova in questa condizione. Quasi il 29%. Numeri che fanno guadagnare all’Italia il primato negativo tra tutti i Paesi europei. Ne abbiamo parlato con il professor Luciano Monti, docente all’università Luiss Guido Carli, condirettore scientifico della Fondazione Bruno Visentini e curatore del rapporto sul divario generazionale.
Professor Monti, quanto è allarmante il dato italiano sui Neet che emerge dall’ultimo rapporto Eurostat? E come lo spiega?
È un dato che continua a essere preoccupante. In valori assoluti l’Italia è il Paese che ha registrato la performance peggiore. Siamo intorno ai tre milioni di persone che appartengono a questa categoria. Quel che è ancora più allarmante è che il fenomeno Neet altro non è che l’effetto di una causa: continue politiche che non sono state in grado di creare un clima favorevole per l’ingresso delle nuove generazioni nel mondo del lavoro. Negli anni si è allontanata sempre di più l’autonomia economica e sociale degli individui, che oggi si raggiunge oltre la soglia dei quarant’anni.
Questo ha contribuito a un allargamento della categoria dei Neet?
I dati diffusi nei giorni scorsi dall’Istat lo confermano. Oggi tra coloro che non lavorano e non studiano sono compresi anche quelli che hanno un’età compresa tra i 35 e i 49 anni. Sono Neet di cinque anni fa. Il dato dell’Istat dimostra proprio che la fascia dei Neet si sta allargando, tanto che non so fino a che punto possiamo definirli ancora “giovani”. Sono gli “Old Neet”. Di nuovo c’è solo il termine. In realtà si tratta di quelli che fino a dieci anni fa erano i Neet giovani, i nati tra il ’70 e l’85. Sono quelli che non riescono a entrare nel mondo del lavoro. Oppure che ci sono entrati, ma che poi ne sono rapidamente usciti.
Nell’ultimo rapporto sul divario generazionale pubblicato dalla Fondazione Bruno Visentini e curato da lei, è stato elaborato l’indice di divario generazionale 2.0. Di cosa si tratta?
Sì, è un indice sempre più sofisticato che indica il livello del divario generazionale (qui l’abstract del rapporto). Dopo l’impennata del 2014, è leggermente e lentamente sceso. Secondo le previsioni, quest’anno dovrebbe attestarsi intorno ai 128 punti. È un indicatore composto da 13 domini. In particolare cinque contribuiscono maggiormente al peggioramento del risultato finale: la parità di genere, il reddito, la ricchezza e il welfare familiare, le pensioni, il debito pubblico e, per finire, il capitale umano, introdotto a partire da quest’anno.
A proposito di capitale umano, quanto influisce la quarta rivoluzione industriale sulle dinamiche occupazionali?
Influisce. E molto. È evidente che il processo di digitalizzazione ha aperto la strada a dinamiche impensabili fino a pochi anni fa e ha eliminato il divario geografico. Si rischia però di provocarne un altro: la digitalizzazione, la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale” e il 5G alle porte sono una grande opportunità. Che può essere sfruttata però solo da chi può contare sulla disponibilità di piattaforme di telecomunicazione e su un buon tasso di alfabetizzazione digitale.
Ma quali sono gli ostacoli che i giovani incontrano per entrare nel mondo del lavoro?
Sono legati agli indicatori che ho citato prima, ormai fuori controllo. Se il sistema economico di un Paese non accompagna i giovani nel mercato del lavoro, si deve necessariamente porre in essere azioni in senso opposto. Nel rapporto abbiamo elaborato una sorta di “Atlante delle misure generazionali”. Dopo aver analizzato due leggi di bilancio – quelle dei governi di Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte – abbiamo rilevato che da due anni a questa parte sono mancate politiche a favore dei giovani. La prima ne prevedeva poche, la seconda ancora meno. Non ci sono in questo momento, se non piccole e insignificanti, misure riservate alle nuove generazioni. Forse è il caso che il nostro Paese cominci a rifletterci. L’indebolimento dei fondi per l’istruzione e la ricerca sono segnali di scarsa attenzione non solo nei confronti dei giovani, ma anche dell’economia futura dell’Italia.
Quali sono le proposte per porre rimedio a questa situazione?
Nel rapporto noi le chiamiamo “Una mano per contare”, che i media hanno rinominato “reddito di opportunità”. È un conto individuale che viene riconosciuto in modo generalista a tutti i diciottenni che non consiste in un’erogazione mensile o annuale di risorse economiche bensì nell’opportunità di accedere a servizi che appunto si contano sulle dita di una mano: vanno dalla possibilità di fare esperienze di alternanza scuola-lavoro (anche lontano da casa) a quella di ampliare la propria formazione. Dall’accesso a percorsi di ricerca nelle imprese agli incentivi all’assunzione. È prevista poi la possibilità di avere rimborsi per l’affitto dell’abitazione o agevolazioni sull’acquisto della prima casa. Cinque misure già messe in pratica in passato. Ma mai tutte insieme, in un unico conto individuale. Si tratta di scegliere solo come e quando usufruirne.
E i costi?
Si prevede un costo di 20.000 euro per ragazzo. Sarebbero finanziati attraverso un’imposizione una tantum per tre anni sulle pensioni al di sopra di una certa soglia. Una questione che, a nostro parere, potrebbe anche passare al vaglio della Corte costituzionale dato che il prelievo forzoso sulle pensioni più alte sarebbe destinato a un’attività specifica e soprattutto risolverebbe un problema emergenziale.