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L’S-400 è arrivato in Turchia. La crisi tra Ankara e Washington è totale, anche se…

I missili della discordia sono arrivati in Turchia, e forse saranno raggiunti a breve dalle temute sanzioni americane. Nonostante i tenaci tentativi di Washington, tra esclusione dal programma F-35 e offerta dell’alternativa Patriot, le consegne dell’S-400 per la difesa antiaerea sono iniziate come previsto, destinate a concludersi nel giro di qualche giorno. “Tutto è avvenuto senza intoppi”, ha specificato il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu. Gli intoppi, quelli strategici, arriveranno probabilmente tra poco, quantomeno nella posizione di Ankara rispetto alla Nato. Ora, spiega infatti il New York Times, “inizia il test per l’Alleanza Atlantica”.

DISTANZE INCOLMABILI

L’S-400 è abilmente utilizzato dal Cremlino come strumento strategico e diplomatico. Le vendite del sistema hanno sempre in sé l’obiettivo di consolidare i rapporti con i destinatari, e basterà per questo ricordare i contatti sul tema con la Cina. Ciò vale però in modo ancora più evidente con la Turchia, avvicinata da Vladimir Putin all’indomani dal fallito golpe del 2016, non appena il presidente avvertì la possibilità di inserire una sanguinosa spina nel fianco della Nato e dell’alleanza tra Ankara e Washington. Da allora, passando per l’accordo dell’aprile 2017 su due batterie di S-400 e per la successiva formalizzazione a dicembre dello stesso anno, l’obiettivo è parso centrato, e le distanze tra Usa e Turchia in costante aumento.

LA CONSEGNA

La consegna è solo l’ultimo passo di un processo che ad Ankara non è mai stato messo in dubbio. Le prime componenti del sistema sono arrivate nella base di Murted Hava, a poco più di trenta chilometri dalla capitale. A comunicarlo è stato direttamente il ministero della Difesa, con una nota ufficiale in cui ha specificato che il processo continuerà nei prossimi giorni. Per la piena operatività del sistema, tuttavia, occorrerà attendere almeno fino a ottobre, mentre per quanto riguarda le modalità di utilizzo saranno “le autorità competenti a decidere”. Sono proprio queste due specifiche, rilanciate dai media turchi, a lasciare l’ultimo margine di manovra per una soluzione della disputa con gli Stati Uniti. Qualche giorno fa, il ministro Cavusoglu aveva detto che i missili sarebbe stati utilizzati “solo in caso di emergenza”. Sebbene l’approccio diplomatico sia stato rapidamente sconfessato da Erdogan, specificando che il sistema “non verrà parcheggiato da qualche parte”, l’ipotesi è che l’accordo con gli Usa possa trovarsi proprio sulle modalità di impiego e sul dispiegamento.

I TENTATIVI USA

Certo, la soluzione resta oltremodo complicata. Accanto agli aspetti strategici, le rimostranze americane (rilanciate puntualmente dalla Nato) sono operative. Il sistema S-400 non può essere inter-operato con gli assetti della Nato, né inserito all’interno di un sistema di comando e controllo comune con gli alleati, il tutto proprio mentre l’Alleanza riorganizza la sua postura militare sull’interoperabilità. In più c’è il rischio che l’assetto russo venga utilizzato come un trojan per carpire i segreti di altri armamenti, a partire dall’F-35 (che la Turchia vorrebbe acquistare in 100 unità), mandando informazioni riservate direttamente a Mosca sull’avanzato velivolo di quinta generazione. Da qui, la minaccia di ritorsione più forte che Washington ha portato avanti per cercare di spingere Ankara a un passo indietro: l’esclusione della Turchia dal programma Joint Strike Fighter. La minaccia, inizialmente ritenuta inverosimile dai turchi, si è dimostrata credibile negli ultimi mesi, con l’interruzione delle consegne su equipaggiamenti di supporto e forniture per i velivoli turchi e la sospensione, più recente, dell’addestramento nelle basi Usa per i piloti e i manutentori di Ankara. Altrettanto credibile diventa ora la minaccia di sanzioni, date per scontate da quasi tutti i media d’oltreoceano.

MARGINI DI MANOVRA?

Su entrambi i punti, la Turchia si è dimostrata comunque sensibile. Non è disposta a rinunciare agli F-35, tanto da giocarsi la carta dell’internazionalità del programma (“negli accordi non è previsto che un partner ne possa far fuori un altro”, continuano a ripetere i rappresentati turchi), né uscirebbe indenne da sanzioni la cui semplice previsione ha già fatto crollare la valuta nazionale. Al bastone, gli Usa hanno poi aggiunto la carota, supportati anche in questo dagli altri alleati Nato: l’offerta del sistema Patriot. Un’ipotesi ormai remota, visto l’avvio della consegna dell’S-400 e l’ormai consolidata ritrosia del Congresso Usa (chiamato ad approvare eventuali vendite) a una linea morbida per la questione turca. D’altra parte, proprio da Capitol Hill arrivò la prima proposta, l’anno scorso, di escludere la Turchia dal programma F-35.

L’ULTIMA SPIAGGIA

L’ultima spiaggia resta dunque il rapporto diretto tra i due presidenti, Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan, sebbene il recente incontro al G20 di Osaka (da cui ci si aspettavano novità sul dossier) non abbia prodotto risultati. Ieri, l’ambasciatore di Turchia a Roma, Murat Salim Esenli spiegava la natura “meramente politica” delle frizioni con Washington, aggiungendo “la differenza di vedute” tra Casa Bianca (da una parte) e Pentagono e dipartimento di Stato (dall’altra). Secondo il diplomatico, i due presidenti sarebbero d’accordo, salvo poi gli alt che arrivano dalle amministrazioni Usa. Tra le righe, emerge il tentativo che Ankara sta portando avanti: far in modo che la questione sia discussa direttamente ai massimi livelli, così da evitare gli scenari peggiori.

IL SISTEMA DELLA DISCORDIA

Il dossier è però intricato anche per la Nato. L’ottimismo che il segretario generale Jens Stoltenberg ha cercato di far trasparire anche nell’ultima riunione dei ministri a Bruxelles non ha funzionato. È vero che altri Paesi membri sono già dotati di assetti di origine russa, ma nessuno ha il peso della Turchia, né la sua prossimità geografica ai contesti che contano. L’S-400 (per la Nato, SA-21 Glowler) è considerato uno dei sistemi più avanzati per la difesa aerea, paragonabile proprio al Patriot statunitense. Nello specifico, si tratta di un sistema missilistico mobile terra-aria, in grado di ingaggiare aerei, Uav, missili da crociera, e dotato di una dichiarata capacità di difesa terminale dai missili balistici (cioè nella fase finale della loro traiettoria, quella in cui è più difficile e pericoloso colpirli). Già dispiegato in Siria, presso la base di Tartus, e in Crimea, il sistema è utilizzato con funzioni di A2AD (sigla che sta ad indicare Anti-Access-Area-Denial) per il controllo e la difesa dello spazio aereo volto ad annullare la proiezione di strumenti militari da parte di attori esterni. Come riporta l’autorevole Csis, l’S-400 monta generalmente i missili 48N6, capaci di colpire fino a 250 chilometri e di intercettare un missile balistico in un raggio di 60 chilometri. Fino all’anno scorso, i 77N6 e i 40N6 erano ancora in fase di test. Consentirebbero di aumentare i raggi d’azione fino a 400 chilometri con tecnologia hit to kill (esplosione all’impatto, garantisce maggiore efficacia).

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