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L’Ue, l’arma nucleare e la pratica della deterrenza. Realtà o illusione?

Di Niccolò Petrelli

Un’idea si aggira oggi per l’Europa: l’idea di un deterrente nucleare dell’Unione europea. Nell’oblio da più di due decenni, l’ipotesi di un arsenale nucleare condiviso tra membri del progetto di integrazione europea è stata, seppur in forme diverse, discussa in numerose occasioni dall’inizio di quella che potremmo chiamare “l’era nucleare”, senza mai tuttavia riscuotere grande successo.

Il cancelliere tedesco Adenauer discusse l’idea di una cooperazione nucleare franco-tedesca con De Gaulle già nella seconda metà degli anni ’50, ma i colloqui ebbero breve durata, terminando dopo l’elezione del generale a presidente della Repubblica nel 1958. Alcuni anni dopo, Helmut Schmidt propose l’inclusione della Germania sotto l’ombrello nucleare francese in cambio di sostegno finanziario. Nel corso del negoziato per la stipula del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare, e negli anni che ne precedettero la (tardiva) ratifica, sia l’Italia sia la Germania si adoperarono attivamente perché il nascente regime di non-proliferazione non pregiudicasse in alcun modo la possibilità per una futura entità politica europea a carattere federale di essere in possesso in qualche forma di una capacità nucleare militare. Ogni iniziativa in tal senso si risolse in un nulla di fatto.

Intorno alla metà degli anni ’90 la Francia rilanciò l’idea. La creazione della Joint Commission on Nuclear Policy and Doctrine con il Regno Unito e i termini della Dichiarazione Congiunta di Chequers contribuirono a creare un più solido framework di collaborazione tra le due potenze nucleari europee. Nella convinzione che la fondazione dell’Ue richiedesse una nuova prospettiva sulla deterrenza nucleare, Parigi ritenne che la rinnovata collaborazione franco-britannica in materia potesse rappresentare una valida base di partenza. Il concetto francese di una “deterrenza concertata” non raccolse tuttavia, ancora una volta, consensi tra i membri della nascente Ue ed anzi, in alcuni casi sembrò suscitare vera e propria irritazione.

Oggi rilevanti cambiamenti sembrano aver impresso un nuovo slancio alla riflessione strategica sulla questione, soprattutto la maggiore assertività russa in politica estera, nonché la rinnovata enfasi posta sulle capacità nucleari (in particolare “tattiche”) nella dottrina strategica di Mosca. In tale contesto, la capacità dell’Ue di perseguire una efficace politica estera e di sicurezza comune, capace  effettivamente di condizionare le preferenze politiche degli avversari, si è argomentato, non può più prescindere da una solida deterrenza fondata, tra l’altro, su una capacità nucleare ‘strategicamente autonoma’.

Ma esistono realistiche prospettive di un’autonoma deterrenza nucleare europea? La risposta prevalente è che si tratti di un’illusione, in particolare a causa di problemi di carattere operativo, legati allo sviluppo stesso di capacità nucleari comuni. Questo saggio sostiene che i problemi capacitativi sarebbero, ove esistesse la volontà politica di affrontarli concretamente, facilmente risolvibili. Al contrario, molto più complesse e di difficile soluzione sarebbero le questioni legate alla pratica della deterrenza, in particolare in relazione alla credibilità e alla capacità di comunicazione che ne rappresentano basi imprescindibili.

Secondo la teoria della deterrenza, nucleare così come convenzionale, perché essa possa funzionare devono sussistere tre condizioni: possesso di adeguate capacità; formulazione di una minaccia credibile; capacità di comunicare con chiarezza la minaccia al proprio avversario.

In relazione alla questione delle capacità, è anzitutto opportuno sgomberare il campo da scenari poco realistici (almeno nel breve-medio periodo) come quello dello sviluppo ex novo di un arsenale comune sotto il controllo delle istituzioni Ue. Dunque, partendo dall’assunto che la Brexit avrà luogo in un futuro piuttosto vicino, l’ipotesi più concreta rimane quella di una qualche forma di integrazione del deterrente francese in un quadro Ue. Esistono diverse ipotesi concrete su come ciò potrebbe essere attuato. Una, relativamente semplice, potrebbe essere modificare l’articolo 42.7 del trattato di Lisbona – la clausola di mutua difesa dell’Ue – chiarendo che potrebbe essere esercitato con qualsiasi mezzo, incluse dunque le armi nucleari. In termini d pianificazione operativa ciò potrebbe tradursi, ad esempio, nel riprodurre a livello Ue una procedura analoga al Nato Snowcat (Support of Nuclear Operations With Conventional Air Tactics – Sostegno alle operazioni nucleari Nato con tattiche aeree convenzionali), integrando sistemi offensivi e di comando e controllo nucleare francese con piattaforme e sistemi d’arma convenzionali, di sorveglianza, difesa aerea e missilistica, forniti da tutti gli altri membri (non-nucleari) dell’Ue.

Questa semplice ipotesi di “sviluppo” di un arsenale Ue illustra come, se affrontata in termini realistici, la questione capacitiva non necessariamente rappresenterebbe un ostacolo. Molto più complesse, al contrario, appaiono le difficoltà legate alle altre due pre-condizioni per il successo della deterrenza: la credibilità della minaccia dell’impiego di un’arma nucleare, e la capacità di comunicarla.

La deterrenza dipende fondamentalmente da una percezione di credibilità della minaccia che, come la letteratura ha evidenziato, può divergere, in maniera anche significativa, dalla realtà oggettiva. Essa è infatti in primo luogo influenzata dalla situazione specifica in cui viene comunicata: la minaccia di di un attacco nucleare in risposta a una “provocazione” grave è certamente più credibile di una minaccia analoga in risposta a un’aggressione “minore”. Esiste tuttavia anche un’altra componente della credibilità, che è inerente al soggetto che formula la minaccia, non alla situazione. In circostanze identiche, la minaccia di un attore può essere credibile laddove quella di un altro non lo sarebbe. In parte, naturalmente, ciò deriva dalle capacità di attuare la minaccia nonché da quella di difendersi dalla risposta dell’altro. Ma c’è di più; è stato infatti chiaramente dimostrato che la credibilità è legata alla “reputazione”, alla percezione di risolutezza rispetto al prezzo da pagare per impedire una determinata azione da parte di un avversario. Sotto questo punto di vista, non si può dire che una “reputazione” internazionale dell’Ue in politica estera sia ancora emersa in maniera coerente. In assenza di tale reputazione e in presenza di un sistema nucleare incentrato sul deterrente francese, è molto probabile che ad essere presa in considerazione da un avversario, nel corso di un’eventuale crisi, sarebbe la sola “reputazione” della Francia.

Si riprodurrebbe dunque con molta probabilità un problema di credibilità analogo a quello della “deterrenza estesa” Usa in ambito Nato, seppur in maniera meno drammatica. Ma fino a che punto la leadership francese riuscirebbe a mostrarsi pronta a correre il rischio di sacrificare Parigi per Varsavia o Helsinki rimane una domanda a cui è estremamente difficile dare una risposta.

Infine, sussistono difficoltà non trascurabili anche in merito alla questione della comunicazione. La deterrenza consiste in una richiesta nei confronti di un altro attore di astenersi dal fare qualcosa, ed è una relazione iterativa che richiede significative capacità di comunicazione. Più la richiesta è formulata in termini ambigui o non chiari, maggiore è la possibilità di fallimento. Non solo l’attore che intende esercitare una forma di deterrenza deve essere preciso nel definire la minaccia e le condizioni della sua attuazione, ma deve far sì che l’avversario che intende scoraggiare da un certo corso d’azione ne comprenda chiaramente i contorni. Fare in modo che un potenziale aggressore comprenda il messaggio dissuasivo attraverso “il frastuono e il rumore” della politica internazionale richiede significativi sforzi pubblici e privati ​​di comunicazione. Avanzare minacce deterrenti ambigue e imprecise può essere estremamente rischioso, potrebbe generare tensioni crescenti e persino innescare vere e proprie crisi internazionali. Un attore che intenda esercitare deterrenza deve trovare un grado di chiarezza che renda le proprie intenzioni evidenti senza provocare. Possibili difficoltà in merito, in particolare per quanto riguarda il lato pubblico della comunicazione, sarebbero legate alla natura di attore collettivo dell’Ue. L’unicità della sua architettura istituzionale, il persistente stato di indeterminatezza strutturale e complessi equilibri di potere interni, caratterizzati dal sovrapporsi delle voci delle istituzioni con quelle dei leader degli stati membri più influenti renderebbero estremamente complesso comunicare in maniera chiara nel corso di una crisi e dunque applicare la deterrenza.

Negli ultimi anni un simile problema di comunicazione si è spesso manifestato nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune dell’Ue, anche rispetto alla Russia. Ovviamente è ragionevole ipotizzare che, a seguito dell’acquisizione di capacità nucleari, verrebbero introdotte appropriate riforme al fine di assicurare una maggiore coerenza della comunicazione. Appare tuttavia difficile pensare che, in un’era di globalizzazione dell’informazione e della comunicazione, ciò possa controbilanciare adeguatamente quelle che potremmo chiamare le “esternalità negative”, in termini di coerenza e chiarezza della comunicazione, intrinsecamente legate alla complessa architettura istituzionale dell’Ue.

Alla luce di quanto sopra, non sembra raccomandabile per l’Ue nel breve-medio periodo tentare di includere la deterrenza nucleare nel proprio repertorio di politiche di sicurezza. Nei termini in cui sarebbe realisticamente possibile disporre di un arsenale nucleare comune, infatti, l’Ue non sarebbe in grado di praticare con successo la deterrenza. Paradossalmente, la soluzione più appropriata ai problemi fino qui descritti  sarebbe quella di creare un vero e proprio arsenale comune ex novo sotto pieno controllo delle istituzioni dell’Unione. Ma il suo tempo sembra non essere ancora arrivato.

Niccolò Petrelli – Docente di Studi Strategici, Università Roma Tre


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