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Chi ostacola (e chi no) l’adesione dei Balcani occidentali all’Ue

Di Tommaso Meo

Il 4 e 5 luglio scorso si è tenuto a Poznan, in Polonia, il vertice annuale del Processo di Berlino, un percorso, avviato dalla Germania nel 2014, per rilanciare l’inclusione dei Balcani occidentali nell’Unione europea. Erano presenti, oltre ai rappresentanti dei sei Paesi della regione e alcuni capi di Stato europei, anche Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea, e Johannes Hahn, commissario europeo per la politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento. La riunione avrebbe dovuto seguire di qualche giorno un vertice a Parigi sulla situazione tra Kosovo e Serbia, promosso dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Emmanuel Macron e previsto per il primo luglio. Quell’incontro, però, non si è tenuto: annullato a causa delle accresciute tensioni tra i due Stati balcanici e per le concomitanti trattative per le nomine delle nuove cariche europee.

CRITICHE POLACCHE ALL’ATTEGGIAMENTO EUROPEO

Poznan è stato un meeting interlocutorio, senza alcun impatto significativo sul futuro dei sei Paesi della regione che attendono d’entrare nell’Ue. Sono state però chiarite alcune posizioni sull’allargamento. La Polonia, tramite il suo presidente Andrzej Duda, che guidava i lavori, ha criticato apertamente l’atteggiamento dell’Unione negli ultimi mesi. Duda ha indicato la necessità di un cambio di marcia e di un percorso chiaro per gli Stati che ambiscono all’entrata: “Ai Paesi dei Balcani non si può chiedere di partecipare a una corsa di cui non vedono la linea di arrivo”.

Il presidente polacco si riferiva in particolare alla situazione di Albania e Macedonia del Nord. Entrambi i Paesi hanno fatto severe riforme per potere ottenere lo statuto di candidati. Il primo ha riformato, anche se con difficoltà, il sistema giudiziario, mentre il secondo è reduce da uno storico accordo con la Grecia sul cambio del proprio nome, da Fyrom (Former Yugoslavian Republic of Macedonia) a Repubblica della Macedonia del Nord. Tutto questo non è bastato perché l’Ue, nel Consiglio europeo di fine giugno, ha ulteriormente rimandato la decisione sul loro statuto all’autunno, dopo averla già posticipata nel 2018. Se, come ha detto Hahn, il destino dei Balcani è nell’Ue, per il momento appare ancora abbastanza lontano.

UNA PANORAMICA DELLE CANDIDATURE

Fra i Paesi più titubanti sull’allargamento ai Balcani occidentali, e che cercano di rallentare l’avanzamento dei negoziati, c’è la Francia di Macron, che ritiene sia indispensabile riformare il funzionamento dell’Unione, prima di aprire le porte a nuovi Stati membri. Mentre Macron ha ribadito questa posizione a Poznan, Angela Merkel è sembrata invece spingere nella direzione opposta. Dopo la riunione in Polonia, Merkel ha dichiarato di guardare con ottimismo all’autunno, riferendosi al Vertice europeo di ottobre che potrebbe decidere l’apertura di negoziati ufficiali con Albania e Macedonia del Nord. Altri quattro Stati dei Balcani occidentali sono attualmente in trattativa per entrare in Ue: Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina e Kosovo; i primi due si trovano in una fase negoziale più avanzata, essendo già Paesi candidati, mentre Bosnia e Kosovo sono solo Paesi potenzialmente candidati.

I PRO E I CONTRO

Chi appoggia l’adesione di questi Stati pensa che uno stop al processo di integrazione possa danneggiare il processo democratico nella regione, favorendo l’influenza, già presente, nei Balcani occidentali di Cina e Russia. Gli scettici, come Macron, ritengono invece che al momento l’Ue non abbia gli strumenti necessari per sanzionare, nell’eventualità, comportamenti poco democratici dei nuovi Stati membri, come già successo con Ungheria e Polonia. Pensano anche che l’Ue, ancora alle prese con l’infinita Brexit e il pericolo populista, debba prima risolvere i suoi problemi. L’ultimo grande allargamento Ue risale al 2004, quando entrarono nell’Unione dieci Paesi contemporaneamente; per molti, non è ancora stato metabolizzato.

Il processo di allargamento ai Balcani occidentali è di fatto già iniziato, anche perché i sei Paesi in lista sono per molti versi già integrati economicamente con gli Stati vicini e con altri Paesi europei, come ribadito anche a Poznan. La Commissione europea nel febbraio 2018 ha presentato la sua strategia sui Balcani occidentali, affermando che Serbia e Montenegro potrebbero entrare a far parte dell’Ue nel 2025. La Commissione ha però sottolineato che si tratta di un obiettivo ambizioso. Il percorso è lungo, richiede vari anni e ci sono molte richieste europee da soddisfare, tra cui i tre criteri di Copenaghen, che un Paese deve rispettare prima di essere accettato come candidato: istituzioni ed economia solide e accettazione degli obblighi derivanti dall’adesione comunitaria. Solo una volta soddisfatti uno Stato può negoziare l’entrata con l’Ue.

LE DIFFICOLTÀ E IL NODO DEL KOSOVO

La Bosnia, per esempio, non è uscita bene dall’ultimo rapporto della Commissione europea sulla sua domanda di adesione. Il Paese è incapace di darsi un governo da mesi e sembrano ancora troppe le questioni irrisolte a livello di istituzioni, stato di diritto e diritti umani. La Serbia, invece, pur avendo avviato i negoziati nel 2014, si trova al momento in una situazione complicata. La presidenza di Aleksandar Vučić è oggetto di critiche e proteste di piazza per il controllo sui mezzi di informazione e il crescente autoritarismo. Inoltre, la questione dell’ex provincia del Kosovo — la cui normalizzazione riguarda uno dei 35 capitoli negoziali aperti con l’Ue — è lontana dall’essere risolta. Al momento nei rapporti tra i due Paesi pesano i veti incrociati tra Pristina e Belgrado, con la prima che chiede il riconoscimento della propria indipendenza, anche in seno europeo, e con la seconda che pretende invece l’abolizione dei dazi del 100% sulle merci serbe verso il Kosovo. Misura, questa, attuata dopo che la Serbia aveva impedito l’adesione del Kosovo alla Nato. Anche l’extrema ratio di uno scambio di territori per chiudere l’annosa partita è stata per il momento messa da parte.

Oltre ai rapporti deteriorati con la Serbia, a complicare la situazione del Kosovo ci sono le recenti dimissioni del premier Ramush Haradinaj. Il primo ministro ha lasciato il suo incarico dopo essere stato convocato all’Aja dalla Corte speciale per i crimini dell’Esercito di Liberazione del Kosovo, per essere interrogato sul suo coinvolgimento nella guerra contro la Serbia di Slobodan Milosevic. Possibili elezioni in agosto, con conseguenze tutte da capire.

In questo contesto la nomina ad alto rappresentante dell’esperto ministro del governo spagnolo Josep Borrell potrebbe mischiare le carte. La Spagna è uno dei cinque Paesi europei, insieme a Grecia, Slovacchia, Cipro e Romania, che ancora non riconosce l’indipendenza unilaterale del Kosovo del 2008. Una sua posizione favorevole, infatti, potrebbe avere ripercussioni interne sulla questione catalana. Il dossier su Serbia e Kosovo sarà però sulla scrivania di Borrell. L’Ue vuole la questione risolta nel più breve tempo possibile e questo conviene anche ai due Paesi, se vogliono un futuro nell’Unione. La Serbia potrebbe ammorbidire le sue posizioni, pur di trovare un accordo , conscia di avere una sponda in più, così come al Kosovo converrebbe abbandonare l’intransigenza di questi mesi, sapendo che porterebbe pochi risultati.

(Pubblicato sulla rivista Affari Internazionali)

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