Se mai nascerà, il prossimo governo sarà ancora una volta un governo di minoranza. Espresso cioè da forze che, pur rilevanti nelle urne in termini percentuali, soffrono del male comune di questa nostra imperfetta democrazia popolare: l’astensionismo. Era così per il governo gialloverde e così sarà anche per l’eventuale governo giallorosso. Nessuno, infatti, salvo forse il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sembra farsi carico della più grave crisi di rappresentanza democratica che il Paese abbia attraversato nel secondo dopoguerra: il crollo della partecipazione a qualunque appuntamento elettorale (nazionale, regionale e locale). Per non parlare delle recenti elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo che hanno visto gli italiani disertare massicciamente le urne, in aperta controtendenza con tutti gli altri elettori del continente. Un ulteriore campanello d’allarme che sembra non aver ottenuto, da partiti e movimenti, l’attenzione che meritava. Perché un governo purchessia conta più del disvalore di un consenso ottenuto a tutti i costi. A colpi di slogan maramaldi, di promesse mirabolanti destinate all’oblio, di investimenti in forme volatili di democrazia diretta, di paure di massa alimentate e cavalcate, di vendette sociali conto terzi senza essere Robin Hood, di demolizione di tutti i soggetti sociali che intermediano nelle democrazie liberali.
Dunque, se proprio occorre recuperare un consenso che spinga i cittadini a riavvicinarsi alle urne, è necessario un sano esame di coscienza di tutti, partiti (vecchi) e movimenti (vecchi e nuovi), su ognuno dei punti su citati. E dovrebbe far riflettere, proprio in queste ore, l’eclissi della retorica grillina sul “contratto”. Sono trascorsi appena 14 mesi dalla lunghissima trattativa che portò alla firma da parte di Salvini e Di Maio del famoso contratto di governo che avrebbe dovuto regolare nei minimi particolari l’azione del nascente esecutivo gialloverde. Sappiamo bene come è andata a finire: ogni singola parte del contratto è stata rimessa in discussione e sottoposta a trattative spesso estenuanti fra i due ex alleati. Presto i dissensi hanno preso il sopravvento sulla retorica sbandierata del governo del “cambiamento” e hanno finito per logorare lo stesso strumento del contratto. Così che, dopo aver consumato tante altre formule, anche quella del contratto è oramai inspendibile, con buona pace delle illusioni grilline. Così che oggi i cinquestelle possono aprire un altro forno (questa volta a sinistra) con altri nominalismi buoni alla bisogna. Patto di legislatura o accordo di programma? Poco importa: restano e resteranno puri nominalismi se la politica (e le donne e gli uomini della politica) non riconquisteranno la piena consapevolezza della forza del mandato popolare.
Ma noi sappiamo bene, dopo gli anni del maggioritario all’italiana, che sta qui il punto dolente. L’aver scelto la via della disintermediazione da parte di partiti e movimenti (nessuno escluso), è il peccato capitale della politica moderna. Berlusconi, Renzi, il duo Grillo-Casaleggio ne sono stati i campioni. E Salvini, sino all’altroieri, il campionissimo. Allora, il primo atto coraggioso che ci attendiamo è quello di un abbandono unilaterale delle pratiche di disintermediazione. Difficile? No, difficilissimo. Basti pensare ai successi di Trump, di Putin e persino di Macron e Orban. Ma si può essere leader politici anche alla maniera di Angela Merkel, con un partito vero alle spalle e avversari di volta in volta più o meno agguerriti.
È certamente difficile per le nostre forze politiche dismettere i panni della disintermediazione (qualcuno sostiene addirittura che sia impossibile al tempo dei social network), ma forse una risposta potrebbe venire da un ritorno consapevole e motivato al sistema elettorale proporzionale che pure, sappiamo bene, non è stato un esempio di virtù soprattutto a cavallo degli Anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Ma forse è un rischio che è necessario correre, nella speranza che in tutto il Paese emerga il desiderio di tornare a una politica che abbia il respiro della vita reale e non il sapore ambiguo dello scambio. Quel baratto del nostro voto con favori, privilegi, false sicurezze e assistenzialismo che ci rende sempre più simili a dei consumatori politici piuttosto che a elettori liberi e consapevoli. Cittadini veri che temono in egual misura l’astensionismo e la disintermediazione. E che attendono la buona politica e la sana rappresentanza.