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La Difesa durante il Conte 1? Bene ma… Le valutazioni di Bertolotti

La Difesa ha bisogno di continuità, ma soprattutto di una chiara ed efficace politica estera. E se il bilancio della gestione targata Elisabetta Trenta è “tutto sommato positivo”, qualche neo emerge sul secondo aspetto, a partire dalla Libia. Ora, bene la conferma di Giuseppe Conte sulla “collocazione euro-atlantica”, la stessa che serve sull’area di interesse strategico: il Mediterraneo. È quanto emerge dalle parole di Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight e analista Ispi, che Formiche.net ha sentito per un bilancio sulla politica di difesa dell’ultimo anno, con tanti temi ancora aperti eppure snobbati durante la crisi di governo e oltre.

Nelle ultime settimane i temi della Difesa e della geopolitica sono apparsi in secondo piano. C’è il rischio che l’Italia si ritrovi in ritardo rispetto a dossier importanti, anche a noi vicini, come nord Africa e Libia?

Purtroppo, oltre a essere in ritardo, paghiamo pegno per una sostanziale assenza sulle dinamiche delle relazioni internazionali. Siamo stati assenti sul dossier libico e abbiamo lasciato spazio eccessivo ai nostri partner e competitor senza riuscire a diventare interlocutori privilegiati in un possibile dialogo tra le parti. Addirittura, siamo riusciti a limitare ancora di più quei rapporti con il governo di al Serraj che avrebbero potuto garantirci il consolidamento di posizioni di rendita acquisite anche grazie al contributo di altri attori, in primis l’Eni. Su questo, il ministero degli Esteri è stato posto in secondo piano dal ministro dell’Interno, Salvini, che ha preso il dossier libico pur senza trattarlo con una visione ampia e inserita in dinamiche geopolitiche.

Quale è il suo bilancio sulla politica di difesa nell’esperienza di governo gialloverde?

Tutto sommato, credo che il lavoro fatto dal ministro Trenta abbia portato a un bilancio in positivo. Ovviamente, molti delle attività svolte sono state ereditate dai governi precedenti, così come la maggior parte dei dossier. Ha pagato un caro prezzo: l’assenza di una chiara ed efficace politica estera, per cui il ministro della Difesa rappresenta il gestore dello strumento, quello militare, in funzione delle decisioni di politica estera. Nel complesso dunque un bilancio positivo, anche se credo che sia mancato, forse per gli equilibri all’interno del governo, un certo tipo di coraggio per ciò che riguarda il bilanciamento tra missioni su territorio nazionale e in ambito internazionale.

Ci spieghi meglio.

Basta notare che sono più i soldati impegnati in Italia per funzioni di pubblica sicurezza che quelli impegnati in missioni fuori area, sia di tipo combat, sia per supporto alle forze locali (secondo la Difesa, sono 5.700 i militari impegnati all’estero, e 7.200 quelli sul territorio nazionale, ndr). Su questo, potrebbe essere opportuno ragionare su una progressiva rimodulazione, lasciando più spazio alle forze di polizia per ciò che riguarda sicurezza sul territorio nazionale. Tra l’altro, i soldati costano più di un poliziotto, per addestramento ed equipaggiamento, e sono sotto impiegati. È tempo di rimodulare.

Ritiene che la Difesa, più di altri, sia un settore che necessiti di continuità, anche nella gestione politica?

Sì, ma tenendo in considerazione quanto sopra. Esteri e Difesa sono due ministeri che viaggiano su un rapporto di simbiosi e stretta collaborazione, per cui la continuità la inserirei più nel senso di dialogo e obiettivi comuni tra loro. In questo, credo che l’istituzione di tavoli di confronto permanenti e di momenti di dialogo sia necessaria più che opportuna.

In tal senso, ieri Giuseppe Conte dal Quirinale ha sottolineato il binario euro-atlantico del suo nuovo governo. È un segnale di continuità?

Mi auguro di sì. La collocazione euro-atlantica è un pilastro di cui non ci possiamo privare. Pur guardando anche a est come è stato fatto con l’ultimo governo in alcuni momenti e su alcuni dossier, credo che sia interessante e opportuno per l’Italia riuscire a ritagliarsi un ruolo di mediatore o di facilitatore di dialogo tra le parti. Potremmo avere buone chance e potrebbe valere anche all’interno dell’Alleanza Atlantica, come contropartita rispetto alle debolezze nelle decisioni che spesso coinvolgono un impiego dello strumento militare molto cauto.

Pure sulle missioni internazionali, la linea dell’ultimo pacchetto d’autorizzazioni è sulla scia della conferma degli impegni, con un tendenziale spostamento del baricentro verso il nord Africa. È la strada giusta?

L’area di interesse strategico nazionale è, in questo momento più che mai, il Mediterraneo. Di conseguenza, guardare agli interessi strategici in Libia significa guardare a tutta l’area confinante, sostanzialmente l’intero nord Africa, i Paesi del Sahel e dell’area sub-sahariana. Uno sguardo che per l’Italia deve tradursi in fattiva collaborazione e approccio proattivo. Vedo bene in tal senso la missione in Niger, che mi auguro possa partire come era stata pensata inizialmente per raggiungere gli obiettivi prefissati al fine della stessa stabilizzazione della Libia. Ricordiamoci infatti che il problema libico non si limita all’interno dei confini del Paese, ma tocca l’intera area regionale. Per questo, occorre ribadire gli impegni nell’Iniziativa 5+5 Difesa, di cui l’Italia ha assunto la presidenza nel 2018, passandola in consegna per l’intero 2019 alla Libia. Il forum potrebbe permettere al nostro Paese di mettersi in evidenza, consolidando un ruolo che effettivamente è cresciuto nel corso degli anni. Certo, con i bombardamenti recenti di Misurata avremmo dovuto alzare la voce, senza subire un atto di violenza avvenuto a poche centinaia di metri dai nostri 300 militari.

Quello libico appare dunque un bilancio in chiaro-scuro…

Mi lasci però aggiungere che il ministro Trenta, benché non ci siano state grandi iniziative da parte della Difesa sulla Libia, ha dato grande importanza a un processo di lungo periodo che riguarda il Security sector reform (Ssr): la riorganizzazione del sistema di sicurezza libico e la gestione delle milizie smilitarizzate da reintrodurre all’interno del tessuto produttivo e lavorativo. Purtroppo tale impegno richiede molto tempo, e ancora non ha dato i suoi frutti. Li darà, si auspica, in futuro. Difatti, riuscire a portare la Libia a un basso livello di conflittualità richiede molto tempo, nonché il forte e comune impegno di Esteri e strumento militare. Spero che l’interesse nel Ssr e nel settore della Security force assistance delle forze libiche (estremamente eterogenee) possa continuare anche con il prossimo governo, e questo credo che debba essere il primo passo, in ottica di continuità, per la stabilizzazione della Libia. Anche perché, al tempo stesso, sarebbe un rilevante contributo per la gestione dei flussi migratori che attraversano il Paese.

E per quanto riguarda le missioni in Iraq e Afghanistan?

Il maggiore impegno nell’area mediterranea dovrebbe essere visto coerentemente con un disimpegno dai teatri operativi più lontani dall’interesse strategico del Paese, sebbene tali impegni rientrino nell’ambito dell’Alleanza Atlantica di cui l’Italia è tra i principali contributori.

Sull’Afghanistan in particolare, la linea della Trenta, oltre i dibattiti di inizio anno su una pianificazione di eventuale ritiro, è in sintonia con quella della Nato: si va via tutti insieme solo quando ce ne saranno i presupposti. Occorre procedere in questa direzione?

Assolutamente sì. Il disimpegno dall’Afghanistan dovrà essere portato a termine esclusivamente rispettando gli equilibri, come numero e impegno di truppe, in linea con le scelte politiche dei partner dell’Alleanza Atlantica. In altre parole, nessuno se ne deve andare fin quando l’Alleanza non avrà terminato la sua missione o quando l’azionista di maggioranza, gli Stati Uniti, non avranno deciso di farlo. Personalmente, credo che l’attuale ritiro sia controproducente, rappresentando nel complesso un sostanziale abbandono o un’ammissione di sconfitta nei confronti dei talebani, che così potranno tornare a dominare nel Paese a discapito del governo afghano, il quale, nonostante tutte le difficoltà, garantisce la sicurezza dei suoi cittadini almeno nella maggior parte delle aree urbane. Certo, capisco che Trump abbia esigenze di carattere politico domestico in vista della campagna elettorale per le presidenziali del prossimo anno. Sembra che ci troviamo ancora una volta di fronte a un cambio di strategia rispetto all’Afghanistan per esclusive dinamiche interne degli Stati Uniti.

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