Oggi siamo di fronte a qualcosa che assomiglia ad un nuovo bipolarismo, molto più sfumato di quello che abbiamo conosciuto nel secolo scorso, ai tempi della Guerra Fredda. Tuttavia se, come alcuni analisti sostengono, stiamo vivendo senza accorgercene una seconda Guerra Fredda, la prima cosa che ci dobbiamo chiedere è chi c’è da una parte e chi dall’altra.
Con l’avanzare dei processi di globalizzazione ogni giorno aumenta la capillare interdipendenza economica e commerciale tra tutte le economie del globo, e la rete degli interessi e degli interscambi è diventata talmente fitta ed articolata che rende sempre più difficile per ogni singolo Paese riconoscere ed interpretare i fondamentali del proprio interesse nazionali e distinguerli dagli interessi accessori o dai vantaggi apparenti. Di conseguenza risulta più difficile anche trovare quel criterio ordinatore coerente che può essere capace di guidarne le scelte politiche.
La contrapposizione strategica tra la Cina e gli Stati Uniti è evidente, ma è certamente più difficile comprendere che c’è una disparità di fondo nel confronto tra i due grandi blocchi. Tuttavia bisogna pur trovare un punto dal quale cominciare l’analisi.
Scegliendo come criterio ordinatore la logica dell’appartenenza alle vecchie alleanze del Novecento, possiamo affermare che dalla nostra parte ci sono i Paesi occidentali, caratterizzati dai processi democratici di selezione delle classi dirigenti e dalle libertà civili di cui la democrazia è garante.
Nei Paesi dell’Occidente le elezioni a suffragio universale sono una conquista storica, frutto di lotte popolari per l’emancipazione dalla tirannia, dalla dittatura. Il valore delle libertà individuali, a cui sono associati i diritti civili e sociali degli individui, non si può disgiungere dal concetto di democrazia. Dall’altra c’è un sistema strutturalmente rigido, verticistico e decisionista, dove il potere è concentrato nelle mani di una ristretta élite di partito, autoritaria (a cui corrisponde un capitalismo autoritario), che pianifica lo sviluppo economico ed anche la ristrutturazione del sistema produttivo (Made in China 2025). Le Nuove vie della Seta sono pianificazioni strategiche del governo, elaborate, sponsorizzate ed imposte alla nazione. C’è una progettualità di lungo periodo, finanziata e sostenuta dalla spesa pubblica, che non mira necessariamente a realizzare risultati immediati.
La Cina è un sistema politico autoritario con economia a guida pubblica. Il suo modello di governance è fatto di autoritarismo politico, economico, strategico, ed ha enormi risorse pubbliche a disposizione. Questo rappresenta un vantaggio oggettivo nella competizione globale. In Cina il Partito Comunista pianifica e attua attraverso il governo le politiche economiche, senza che esse debbano necessariamente rispondere a logiche di profitto immediato. La maggior parte degli investimenti è pubblica: lo Stato decide, paga e stampa moneta. Dall’altra parte ci sono le democrazie occidentali, con tutte le loro fragilità, vecchie e nuove. Il primo problema è la frammentazione del sistema economico in una variopinta composizione di Stati sovrani che faticano a costruire visioni strategiche di ampio respiro che siano realmente impegnative per tutti.
L’Unione europea, più degli Stati Uniti, soffre di questa difficoltà. In Occidente la salute delle democrazie, strutturalmente sempre più sensibili agli umori immediati e mutevoli degli elettori, sembra oggi più cagionevole e debole che nel passato. La politica è costretta dalle scadenze elettorali a concentrarsi sui risultati che è possibile conseguire nel breve periodo, che possono essere pubblicizzati e valorizzati entro i tempi di una legislatura parlamentare, ma fatica a pensare ed a pianificare una programmazione economica di medio lungo termine, che richiede una continuità nell’azione di governo che non è possibile garantire, e produce i propri effetti in un tempo differito di diversi anni. Quella che sembra una visione miope, che non permette alla politica di guardare molto lontano, è frutto più del perverso meccanismo dedicato alla spasmodica ricerca del consenso imposto dalla competizione elettorale che dalla difficoltà di elaborare una progettualità di respiro più ampio.
Nell’economia globalizzata la sfida è complessa, anche perché c’è anche un secondo elemento che produce uno svantaggio competitivo, almeno nel breve periodo, per la parte occidentale del pianeta: gli Stati, tutti più o meno indebitati, dispongono di meno risorse per sostenere progetti ambiziosi e costosi di portata nazionale ed internazionale. Purtroppo oggi ci appare chiaro che alcuni sistemi strutturalmente autoritari, dove il potere politico è privo di quei bilanciamenti e mediazioni che sono l’essenza della democrazia e garanzia di libertà, sono competitivi sotto alcuni aspetti. In un contesto globale l’autoritarismo cinese, con quell’accentramento del potere che consente alla politica di decidere in quasi assenza di dialettica, diventa un indiscutibile punto di vantaggio. Il prezzo di questo modello però è troppo alto per noi, perché è la rinuncia alla libertà, che solo la democrazia, con tutti i suoi pesi e contrappesi, con tutte le sue garanzie e faticose mediazioni, può assicurare.
Per Pechino l’Europa tutta è un partner commerciale importante, peccato però che corteggi anche i suoi singoli Stati, con cui tiene costantemente rapporti bilaterali. La notizia dell’intenzione del governo italiano di sottoscrivere con la Cina, nell’aprile del 2019, il Memorandum of Understanding, per entrare a far parte del progetto Bri ha creato immediatamente un grande scompiglio tra i partner europei e con gli Stati Uniti. Si tratta di un documento di intesa sugli ambiti della cooperazione bilaterale in numerosi settori. Non ci sono obiettivi né contenuti precisi, ma espressioni vaghe, e come tutti gli altri MoU firmati dalla Cina, gli ambiti di cooperazione sono gli stessi cinque che costituiscono i risultati ufficiali previsti per la Bri: coordinamento delle politiche, connettività e infrastrutture, libero scambio, integrazione finanziaria e scambi culturali.
Gli Stati Uniti, che ritengono che la Bri sia finalizzata ad escluderli dall’Eurasia e a trasformare la Cina nella maggiore potenza mondiale. L’allarme è stato ascoltato da più parti, a cominciare da Strasburgo. L’opportunità da sfruttare non è tanto per l’Italia, quanto per la Cina, che può usare l’Italia per rompere il “fronte del no”. In realtà le grandi potenze europee non sono pregiudizialmente contrarie ad accordi ad hoc con la Cina. Ma nel 2019 è in atto una dura guerra commerciale fra Washington e Pechino e l’Ue è chiamata a decidere, la politica da seguire nei riguardi dei rapporti commerciali e dell’acquisizione cinese dei gioielli tecnologici e industriali europei. Ecco perché questa mossa unilaterale dell’Italia viene considerata una minaccia. Il memorandum ha un valore legale, anche se non è un accordo. Una firma dell’Italia ha un peso specifico rispetto ad altri Paesi, perché l’Italia ha una posizione diversa. Questo è un memorandum completo, non è relativo solo ad aspetti commerciali, ma c’è dentro tutto. Come membro fondatore della Nato l’Italia ha un peso non solo storico, ma anche concreto: questo ha preoccupato di più gli Stati Uniti. I motivi per stare in guardia, da parte di Washington, ci sono: l’Italia potrebbe essere il primo tassello sulla mappa, agli occhi di Pechino, ed è ben diversa dalla Grecia o dagli altri tredici Paesi Ue che hanno firmato documenti analoghi.
In sostanza, Bruxelles ricorda che la Cina ha regolarmente disatteso i patti commerciali sottoscritti e che, altrettanto regolarmente, i benefici economici per il Paese che riceve investimenti cinesi si trasformano “in un alto livello di indebitamento e nel trasferimento del controllo di risorse e assets strategici”. All’Unione Europea i singoli Stati che l’hanno fondata, o che vi hanno aderito successivamente, hanno attribuito anche la competenza per la negoziazione e la definizione di regole commerciali comunitarie.
Nelle questioni di politica commerciale, che rimangono competenza dell’Unione, sarebbe utile che l’Ue riuscisse a coordinarsi meglio con tutti i Paesi membri nelle loro trattative bilaterali con partner extraeuropei. Per una complessa serie di situazioni incontrovertibili (dalle asimmetrie sulle condizioni di penetrazione nei rispettivi mercati al diverso sistema degli appalti, dalle barriere imposte all’ingresso di imprese europee in Cina fino all’assoluta assenza di parità di condizioni, dai sussidi pubblici di cui godono le aziende cinesi alle discutibili pratiche commerciali di Pechino) soltanto una Ue compatta, secondo mercato mondiale con mezzo miliardo di abitanti, può sperare di negoziare e ottenere condizioni favorevoli per tutti i suoi membri con un minimo di reciprocità. Se i singoli Stati fanno a gara per ritagliarsi singolarmente accordi su misura, non possono conseguire obiettivi duraturi.
Oggi l’ordine mondiale del secolo scorso non c’è più, e non ritornerà. Un nuovo ordine multipolare e multicivilizzato esiste già, è una realtà dinamica, in trasformazione, e la Bri serve alla Cina per orientare la metamorfosi della globalizzazione e conseguire il massimo vantaggio possibile dal mutamento in corso.
A differenza dell’Unione Sovietica, che era l’antagonista dell’Occidente negli anni della Guerra Fredda, la Cina ha una popolazione di un miliardo e mezzo di abitanti, alla quale si deve aggiungere almeno un altro miliardo di abitanti che con essa sono diventati interdipendenti grazie al progetto della Bri ed alla inedita proiezione esterna della politica cinese.
L’ordine mondiale non viene tramandato come un’eredità, da una generazione all’altra, è un processo complesso ed in continua evoluzione. Un sistema più stabile ed inclusivo di quello che ha precariamente governato il mondo negli ultimi anni è nell’interesse di tutti, prima di tutto perché deve mantenere la pace. Ciò che dovrebbe preoccuparci maggiormente del futuro è infatti il rischio che la metamorfosi globale comprometta il modello democratico occidentale, che garantisce la libertà, i diritti individuali e l’esercizio della sovranità popolare.
Non è affatto scontato che si riesca a difendere valori e modelli politici liberali e democratici, che ad oggi sono patrimonio esclusivo di una minoranza della popolazione mondiale, canalizzandoli nel mezzo di “esperienze e valori storici divergenti (…) in un ordine comune”, come ha scritto Henry Kissinger. La maggior parte della popolazione mondiale ragiona seguendo processi cognitivi divergenti: la cultura orientale si fonda sull’interdipendenza tra soggetto e contesto e non riconosce la centralità dell’individuo, che invece è fondamentale nella visione liberale della politica democratica occidentale.
Purtroppo gli ultimi anni hanno segnato il fallimento dell’idea espansiva del modello democratico. Nel mondo globalizzato di oggi convivono e si misurano sistemi politici diversi, che si scambiano denaro, idee, tecnologie, merci, con vantaggio reciproco.
Tuttavia, in questo quadro, oggi l’Europa avrebbe un’opportunità strategica che non dovrebbe essere sprecata: per compiersi il progetto della Bri ha bisogno di una risposta positiva e collaborativa dei suoi terminali europei. Senza questa disponibilità la strategia cinese è bloccata ed incompiuta. Come si è visto la strategia cinese divide gli interlocutori, mettendoli in competizione tra di loro, per contrattare il massimo vantaggio possibile da ogni MoU, e poi da ogni accordo. Dal punto di vista cinese è una strategia giusta ed intelligente. Dal punto di vista Occidentale invece accettare una negoziazione su tavoli separati, sulla base dei singoli interessi nazionali, è un po’ stupido.
L’Europa è una grande potenza se è unita. È una somma di piccoli stati subalterni al suo interlocutore orientale, se è divisa. I singoli Stati, presi singolarmente, possono solo elemosinare delle briciole di opportunità. La Cina preferisce, giustamente, conquistare condizioni di vantaggio dovunque diventa possibile, piuttosto che negoziare un accordo alla pari con l’Unione europea, e sfrutta i punti deboli delle democrazie liberali ed dell’architettura istituzionale comunitaria.
La complessità dell’articolazione dialettica tra Parlamento, Commissione e Consiglio europeo agevola la strategia del divide et impera. Ma questo non è un gioco a somma zero. La Cina ha bisogno della collaborazione attiva dell’Europa perché quanto ha già investito possa avere un ritorno, realizzare i suoi obiettivi strategici e conquistare posizioni di vantaggio nella global policy, sulla quale si fonda l’ordine mondiale. L’esercizio del potere negoziale che questa posizione attribuisce è possibile solo se l’interlocutore della Cina è unico ed unitario. Se ciascuno pensa per sé non potrà invocare poteri superiori, sperando che questi proteggano tutti. Se le classi dirigenti europee saranno invece consapevoli della responsabilità e del compito che la storia assegna loro, potranno contribuire a rendere il mondo più ricco, più sicuro e più giusto.