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Un governo dei giuristi? Una riflessione di Pilat oltre la cronaca

Dalla Gran Bretagna, alla Spagna e infine l’Italia, il dissesto istituzionale all’indomani delle elezioni europee mette in evidenzia ancora una volta la crisi del partitismo ormai consumato e ridotto alla semplice interlocuzione elettorale di sfiducia o di fiducia nei confronti non di una visione d’insieme, ma di un pragmatismo nervoso che rischia di non essere efficace e risolutorio.

Una battaglia tra Orazi e Curiazi che ha ridotto le funzioni dello Stato, compromettendo la sua efficacia e la sua pro attività, qualunque sia il “Capitano”, con una conseguente stagnazione dei poteri che lo compongono nelle morse di una crisi economico sociale strutturata e diffusa sui territori.

Una presa d’atto che ha creato veri e propri “muri” invisibili all’interno dei palazzi, costruiti da veti e contro veti che hanno contaminato un sistema deontologicamente autonomo come quello del Parlamento, delineando la fine dell’interlocuzione e l’accettazione “cerimoniosa” ad una lunga “guerra di trincea” che ha consumato ed esasperato ogni tipo di proposta e alternativa politica.

L’Occidente in quanto culla del parlamentarismo, oggi necessita di una rivoluzione culturale che rinnovi un mandato nel corso della stabilità finanziaria e nella coscienza di dover essere garante delle libertà fondamentali.

Tale mandato infatti non escorpora il concetto di sovranismo, ma lo modifica nelle sue direttrici principali, richiamando in maniera evidente i concetti di principio costituzionale di legittimità territoriale e di popolo sovrano con una però netta dissociazione dalla costruzione di un diritto positivo che non sia legato alle contingenze del periodo storico.

Il sistema finanziario oggi infatti ha modificato qualunque genoma del sistema produttivo globale, creando nuove disparità e nuove opportunità che non possono essere messe alla mercé del diritto vigente ma devono essere salvaguardate e studiate per costruire una nuova codicistica integrata ed efficace.

Il dissesto istituzionale ormai logorato dal diritto positivo ha equiparato le esigenze costituzionali a quelle economico sociali, creando una distorsione della realtà che in termini politici sintetizzano i concetti di “taglio di” e si consumano nella riproposizione scenica di un “governo dei Sì”, a quello “del buonsenso” e infine al “governo Anti-IVA”,

Un maquillage di risveglio nazionalpopolare che rispecchia quindi un Paese alla ricerca di una formula capace di essere sintesi di interessi contrastanti fra loro e per certi versi anche fuori portata, ma che hanno avuto quell’audacia di essere “populisti” nella misura in cui hanno posto l’accento per un dibattito pubblico, ma che non hanno attualmente gli strumenti giuridici per poter essere una formula esatta.

Le ricette infatti di stampo “identitario progressista” hanno delineato una spaccatura nei metodi e nei linguaggi nella tentata condivisione di un’agenda quanto mai complessa e poco flessibile per un Paese che oggi ha bisogno di avere un percorso equilibrato e responsabile.

L’economia chiede al nostro Paese di cambiare, la popolazione chiede stabilità; una sintesi potrebbe essere quella di una un’agenda aperta: la rappresentanza politica in parlamento oggi non è sintesi di mandato ma di dettaglio, quindi insufficiente nella visione ma propositiva nella costruzione di una base culturale su cui costruire una nuova linfa.

Sulle note quindi di “Nessuno mi può giudicare” si consuma il governo Conte e si apre la stagione del possibile “bis” ma il Paese chiede chiarezza e certezze non politiche ma di diritto.

Solo una “rivoluzione” soft di tutto il nostro diritto vigente potrebbe essere la chiave di volta per il nostro sistema Paese? Forse un “governo dei giuristi”? Conte, potrebbe essere uno.

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