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Il decalogo di Di Maio è manifesto del No. Troppo persino per il Pd

L’impressione dopo il giro di consultazioni del Capo dello Stato è che, nonostante gli indubbi passi avanti compiuti da Pd e Cinque Stelle nella trattativa per raggiungere un accordo, suggellati persino da un colloquio telefonico fra Davide Casaleggio e Nicola Zingaretti, il voto anticipato di ottobre si avvicini sempre di più. Ciò soprattutto per i rigidi paletti messi, Costituzione alla mano, da Sergio Mattarella.

Un governo solido e che tendenzialmente duri per tutta la legislatura non sembra infatti essere alla portata delle forze politiche presenti in parlamento e che oggi hanno sfilato, dopo l’incontro con il Presidente della Repubblica, davanti ai giornalisti per le dichiarazioni ufficiali di prammatica. Il fatto è che, nonostante le unanimità di facciata, i due partiti che dovrebbero stipulare l’accordo di legislatura sono divisi al loro interno.

A cominciare dal Pd ove Zingaretti è oggettivamente interessato a votare ma ove è passata la linea renziana della “responsabilità”. Ma fino a un certo punto: le “condizioni non negoziabili” di cui il leader ha parlato, per quanto vaghe, lasciano intuire una lotta interna (nemmeno poi tanto nascosta) che mal si concilia con i tempi imposti dal capo dello Stato. Ovviamente, chi è più interessato all’accordo sono i Cinque Stelle, nonostante le affermazioni in senso contrario sul “non aver paura del voto”.

Ma i dieci punti elencati elencati da Luigi Di Maio conservano ancora molto ideologismo e soprattutto sono in parte indigeribili per il Pd (ad esempio la priorità del taglio dei parlamentari). Non passa inosservato l’accenno alla realizzazione dell’autonomia differenziata, che a mio avviso è stato fatto per lasciare a sorpresa aperta persino la possibilità di un nuovo accordo con la Lega. Che sarebbe, se mai ci fosse, accolto da Salvini, che lo ha esplicitato chiaramente nel suo discorso.

Sarebbe una giravolta non da poco, ma la politica di questi tempi ci ha abituato a tutto. In sostanza, proprio il fatto che le forze politiche si siano lasciate aperte ancora tutte le possibilità, mostra che un accordo non c’è e che la maggioranza, nuova o la vecchia ricostituita che sia, è tutta da costruire. La deadline di lunedì imposta dal Capo dello Stato sembra perciò allo stato attuale del tutto improbabile da rispettare. Certo, un anno fa Mattarella le tentò tutte per non far ripetere le elezioni, ma in quel caso riandare al voto a pochi mesi dal 4 marzo non avrebbe fatto altro che riprodurre gli stessi risultati. Oggi sicuramente non sarebbe più così. E al Paese si chiede, anche da parte dei mercati, prima di tutto stabilità politica.

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