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Pedde spiega perché il negoziato con l’Iran è complicatissimo, ma obbligato

Di Nicola Pedde

L’arrivo al G7 di Biarritz del ministro degli esteri iraniano Zarif è parte di una strategia negoziale tentata in extremis dalla Francia, e di certo non all’insaputa degli Stati Uniti. Come e quanto questa strategia stia producendo effetti ancora non è dato sapere con precisione, mentre è chiaro il quadro entro cui è venuta a maturare.

La decisione di Trump di uscire dall’accordo sul nucleare ed esercitare una pressione incrementale sull’Iran per costringerlo ad accettare i termini di un nuovo – quanto ad oggi assai vago – accordo, ha portato risultati contradditori tanto agli Stati Uniti quanto agli equilibri regionali.

L’Iran è stato pesantemente colpito dalla re-imposizione delle sanzioni secondarie statunitensi, che hanno generato una crisi economica senza precedenti e hanno fatto precipitare il volume della produzione petrolifera a circa 300.000 barili/giorno (il 25% circa di quella che è considerata la soglia minima per l’equilibrio dell’economia). La tensione nel Golfo Persico è tornata dopo anni alle stelle, con l’invio di un secondo gruppo navale e il susseguirsi di una catena di incidenti e schermaglie che solo per miracolo non hanno dato luogo ad un conflitto.

Ciononostante, l’Iran non si è piegato né si è determinata alcuna mobilitazione popolare con il proposito di rovesciare il regime, come avevano auspicato le frange più interventiste a Washington. L’esecutivo guidato da Hassan Rohani è riuscito a gestire internamente – almeno sino ad oggi – le spinte oltranziste delle frange più conservatrici, mentre sul piano della diplomazia non ha abbandonato l’accordo del 2015, adottando un progressivo ridimensionamento della propria parte nel tentativo di richiamare la comunità internazionale al rispetto dei termini dell’accordo.

Nonostante la pesante crisi economica, è rimasta ad oggi pressoché inalterata la capacità di proiezione di Teheran, con effetti che hanno determinato una profonda revisione degli equilibri regionali. Gli Emirati Arabi Uniti, allarmati dalle possibili conseguenze di un’escalation regionale contro l’Iran, e ormai in totale contrasto con i sauditi in merito alla condotta della guerra in Yemen, hanno nuovamente rilanciato il rapporto con la Repubblica islamica, revocando al tempo stesso il loro sostegno alla coalizione militare impegnata nel conflitto yemenita.

Non solo. Dando seguito a quanto più volte paventato da oltre un anno a questa parte, Abu Dhabi ha avallato apertamente le istanze delle formazioni separatiste favorendo la caduta di Aden e la fuga del presidente Hadi, le cui forze sono riuscite a riprendere il parziale controllo della città solo alla fine di agosto. In tal modo si è generata una profonda crisi nella coalizione sunnita del sud, con esiti ancora incerti e complicando ancor più il già fallimentare andamento del conflitto.

L’apertura di Abu Dhabi verso Teheran, e la contestuale ridefinizione del rapporto con i sauditi e con il conflitto yemenita, sono stati accolti positivamente dal Kuwait, dall’Oman e dall’Iraq, e certamente non sono visti con ostilità dal Qatar, con il quale persiste tuttavia la chiusura dei rapporti diplomatici. Questo significa, di fatto, che il Consiglio di Cooperazione del Golfo è stato sostanzialmente svuotato delle proprie prerogative, generando un ulteriore isolamento dell’Arabia Saudita.

Un altro, non meno, significativo risultato è stato il venir meno di quell’asse regionale su cui gli Stati Uniti contavano per il perseguimento del progetto pomposamente definito come “l’accordo del secolo”, che avrebbe dovuto nelle intenzioni del presidente americano Trump e del premier israeliano Netanyahu mettere fine alla lunga crisi arabo-israeliana. Non solo del progetto non se ne sente ormai più parlare, ma in particolar modo è ormai chiaro che le ipotesi di integrazione di Israele nell’ambito di un asse regionale sono sfumate quasi del tutto, isolando sempre più Tel Aviv e spingendola in direzione di una postura sempre più interventista.

In conseguenza di una crisi politica profonda e del contestuale tentativo di Netanyahu di rilanciare verso la minaccia esterna, Israele continua a condurre – nel silenzio della comunità internazionale – quelli che definisce come attacchi preventivi per neutralizzare la minaccia iraniana nella regione, colpendo ripetutamente in Siria, in Libano e più di recente in Iraq, arrivando ad allarmare ed innervosire gli stessi Stati Uniti.

Difficile stabilire quanto a lungo Teheran possa astenersi dal replicare alle mosse di Israele, mentre la capacità di resilienza dimostra come la volontà di definire un nuovo accordo sia predominante rispetto a ogni altro fattore della politica e della sicurezza regionale. In sintesi, anche l’Iran ha urgenza di definire un accordo con gli Stati Uniti, e non può rischiarne l’esito scatenando un conflitto con Israele.

Questa estesa rimodulazione degli assetti regionali non gioca a favore della visione di Washington nella regione, e rischia di provocare conseguenze disastrose sul piano della sicurezza e, indirettamente, sulla popolarità del presidente all’avvio della campagna elettorale.

Anche il presidente Trump ha necessità di definire un accordo con l’Iran in tempi brevi, e questa urgenza riduce di molto il margine negoziale della stessa Casa Bianca. Gli obiettivi di Trump sull’Iran, peraltro, sono apertamente osteggiati tanto dal consigliere per la Sicurezza nazionale Bolton quanto dal segretario di Stato Pompeo che, pur esprimendo posizioni e strategie differenti tra loro, non concordano con il pragmatismo di Trump. Per il presidente, infatti, potrebbe andar bene in questo momento anche un risultato win-win, spendibile quindi come una vittoria anche dall’Iran, che per Trump potrebbe essere invece il viatico da utilizzare in campagna elettorale.

Anche un accordo di questo tipo, tuttavia, non è di facile realizzazione in questa fase, proprio in conseguenza di quella strategia della “massima pressione” che alla fine ha danneggiato tanto gli Stati Uniti quanto l’Iran. L’obiettivo in questo momento è quindi quello di individuare un terreno negoziale idoneo all’avvio di una trattativa con l’Iran, al fine di consentire ad ambo le parti di portare a casa un risultato di successo, spendibile con le rispettive constituency.

Un’impresa ardua, che la Francia ha volontariamente deciso di tentare, anche e soprattutto a difesa dei suoi interessi regionali, che, paradossalmente, sono connessi più ai programmi di spesa militare delle monarchie del Golfo che non al rapporto bilaterale con l’Iran. Quanto e come la Francia sarà in grado di favorire questa sorta di dual-track lo vedremo nel corso delle prossime settimane.

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