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Tutto pronto per l’incontro Trump-Iran? Il fattore Bibi

Ieri il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha twittato una dettagliatissima immagine aerea del poligono di lancio di Semnan in cui un missile iraniano è esploso prima di salire in orbita (dove avrebbe dovuto portare un satellite). La foto —apparentemente scattata da una copia fisica che secondo un funzionario del Pentagono era contenuta in un report di intelligence entrato venerdì nello Studio Ovale — riportava questo commento: “Auguro all’Iran i migliori auguri e buona fortuna nel determinare cosa è successo”.

C’è chi pensa che sia un messaggio velenoso perché crede che quello finito male due giorni fa a Semnan, così come altri con stesso esito in passato, sono lanci manomessi (forse con azioni hacker) dagli Stati Uniti. C’è chi crede nella sincerità di Trump, che ha usato addirittura un’informazione di intelligence Imint molto speciale per affrontare kindly la questione, smarcarsi dalle voci di cui sopra e anzi adoperare un atteggiamento amichevole col governo iraniano, che investe soldi nei missili con cui mettere in orbita i satelliti, e quando i lanci vanno male prende una batosta. Certo, il gesto amichevole è coronato da un’immagine raccolta con un genere di satellite, forse i nuovi KH-11, che l’Iran non riesce né a costruire né a mettere in orbita, e da questo punto di vista sembra un po’ uno sfottò.

Inciso tecnico: secondo alcuni osservatori non si tratterebbe di un’immagine satellitare, ma scattata da un drone. Questo significherebbe che gli Stati Uniti sono riuscita a penetrare i cieli iraniani. Si ricorderà che i Pasdaran avevano già abbattuto un sofisticato velivolo senza pilota americano una mesata fa perché aveva sconfinato. Anche in quell’occasione Trump tenne un profilo controllato: evitò un attacco di ritorsione, ringraziò l’Iran per non aver tirato giù anche un altro velivolo, contenente personale Usa, che viaggiava dietro al drone.

Tutta questa apparente disponibilità dell’americano ha una perché: in questa fase è ansioso di incontrare il presidente iraniano Hassan Rouhani. Vuole una stretta di mano dal valore storico da vendere in campagna elettorale come eredità in politica estera. E sa che se a questo punto il summit si farà, potrà dire che tutto è avvenuto grazie a lui, che ha messo sotto massima pressione l’Iran e ha creato i presupposti per un nuovo negoziato.

Di fatto i contatti sono già partiti, “piaccia o no i talks inizieranno presto”, scrive in un fondo per il Washington Post Jason Rezaian, che vede come bottom line la vittoria di Teheran in questo braccio di ferro. Sebbene con ogni probabilità il risultato finale sarà un win-win senza sconfitti apparenti. Quello che il circolo dei pensatori trumpiani vorrebbe — e su cui è stato basato l’all-in sul ritiro americano dal Jcpoa — è un grande accordo che passa da tre punti da chiedere all’Iran. Fine sincera del programma nucleare militare (con magari aiuti su quello civile); stop alla diffusione delle milizie sciite per giocare influenza malevola regionale (contraccambio: condivisione di un’architettura di sicurezza nel Medio Oriente); chiusura del programma missilistico.

In cambio, un bagno politico-diplomatico con cui ripulire completamente l’immagine è il ruolo di Teheran a livello internazionale (faccenda che significherebbe per gli iraniani la fine dell’isolamento economico). Trump potrebbe accettare anche solo di intavolare le trattative: viste le tensioni attuali potrebbe essere già un buon lavoro a livello narrativo. E d’altra parte si tratta di elementi negoziabili anche per la Repubblica islamica, ammesso che il pragmatismo del governo di Rouhani riesca a tenere a bada gli oltranzisti come parzialmente fatto finora.

Chi ha più da perdere sono loro, i Pasdaran, che infatti cercano spazi per tenere la situazione in tensione con manovre a bassa intensità e spostamenti del dossier a livello regionale. Dall’altro lato, chi è meno d’accordo col piano di contatto di Trump è Israele, che in questi giorni sta sottolineando con insistenza come l’Iran sia il paese che dà spazio a dinamiche terroristiche contro lo stato ebraico. I raid allargati a cui stiamo assistendo  questo significano: ricordare al mondo, con un occhio a Washington, che gli iraniani stanno gonfiando gli arsenali di gruppi paramilitari sciiti antisemiti e sono pronti all’attacco (per questo i caccia israeliani li colpiscono in anticipo, al momento dei passaggi di armi o prima della consegna).

Gerusalemme è nervosa. Secondo uno scoop del sempre informatissimo Axios, il premier Benjamin Netanyahu, domenica scorsa — mentre il suo paese attaccava gli interessi iraniani in Siria, Libano e Iraq contemporaneamente — avrebbe passato diverso tempo attaccato al telefono per cercare “freneticamente” Trump e i suoi assistenti. Voleva chiedergli di non incontrare il ministro degli Esteri iraniano, una volta saputo dell’invito a sorpresa offertogli dal presidente francese Emmanuel Macron al summit del G7.

Trump non ha incontrato l’iraniano, ma ha ringraziato più volte Macron per l’impegno e per l’iniziativa, e ripetuto che non aspetta altro che le condizioni lo permettano perché vuole incontrare Rouhani. Ora dell’incontro ne parlano tutti, e per la prima volta in sincronia sia a Teheran che a Washington, ed addirittura girano rumors secondo cui possa arrivare già nelle prossime settimane.

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