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Russia, Nord Corea e Iran. Al G7 è uno contro tutti (su tutto)

Non è difficile immaginare che i sei partner più uno (il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk) si chiedessero a quanti altri G7 parteciperà Donald Trump. Auspicabilmente solo uno o tragicamente altri cinque?

I rapporti fra i principali alleati occidentali non sono mai stati perfetti neanche prima che nel 1975, a Rambouillet, nascesse il format dell’annuale consultazione informale a sette. Anche dopo la guerra Dwight Eisenhower continuava a chiamare con fastidio Charles de Gaulle con lo stesso soprannome che usava ai tempi in cui comandava il fronte occidentale: “Deux Mètres”. I disaccordi, insomma, ci sono sempre stati.

Mai tuttavia l’Occidente, Giappone compreso, ha vissuto questa strana e probabilmente pericolosa condizione dell’era Trump: uno contro tutti su tutto. E la cosa è ancora più problematica per la solidità dei nostri valori politici ed economici, e per la stabilità globale, se il sovversivo è il presidente degli Stati Uniti: la figura che di solito (anche se non sempre) propone, calibra, guida la squadra occidentale con l’autorevolezza del suo potere universale.

Prendiamo a caso uno dei contenziosi con gli europei e i canadesi. Trump propone di riammettere al vertice occidentale la Russia di Vladimir Putin, quella che nega agli oppositori la partecipazione alle elezioni. Era stata esclusa nel 2014, dopo l’invasione dell’Ucraina: in fondo, dice il presidente americano, i russi avevano le loro ragioni. Non occorre essere un Thomas Jefferson per cogliere il senso della risposta di Tusk: quando fu ammessa negli anni ’90, ha spiegato, “si credeva che avrebbe intrapreso la strada della liberal-democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani. C’è qualcuno fra noi che possa dire con piena convinzione, non sul calcolo degli affari, che la Russia sia su quella strada?”.

Sono argomenti che non rientrano nella scala dei valori di Donald Trump. La necessità di rivedere i comportamenti e i privilegi della Cina sul mercato globale, si sta trasformando nella stessa guerra di dazi e di nazionalismi commerciali che trascinò l’Occidente nella grande crisi del ’29. Il nord coreano Kim Jong-un continua a testare missili sul Mar del Giappone, ma per Trump è un bravo ragazzo. Gli alleati ripetono che l’accordo sul nucleare iraniano resta fondamentale: soprattutto perché è un solido canale diplomatico per moderare i comportamenti degli estremisti a Teheran. Da mesi Trump è a metà del guado fra una guerra all’Iran e il nulla. Nel frattempo gli iraniani riempiono il Levante mediorientale di armi, droni e miliziani; e senza consultarsi con Washington, il grande alleato, Israele porta fino in Iraq la sua guerra a bassa intensità contro l’Iran.

Temi “politicamente corretti al bromuro” e “questioni di nicchia”, è stata la risposta di Donald Trump alle questioni che gli poneva Emmanuel Macron, davanti a un caffè a Biarritz. I temi avanzati dal presidente francese riguardavano la guerra commerciale con la Cina, la questione del clima, la rapida distruzione dell’Amazzonia. E da ultimo ma non per importanza, il coup de théatre dell’arrivo del ministro degli Esteri iraniano Zarif a Biarritz: difficile che Macron sperasse di aprire un canale negoziale con gli americani, più probabile l’intenzione di sottolineare le differenze sull’Iran fra Trump e gli altri.

Qualsiasi cosa di buono ha detto o dirà al mondo, il presidente degli Stati Uniti lo smentisce il giorno seguente con un tweet: “Io ho ripensamenti su tutto”. Cresce così il numero di coloro che, in Occidente e non solo, segnano sul calendario i giorni mancanti al primo martedì di novembre del 2020. Sarà il 3 del mese, quando gli americani torneranno a votare.

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