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Vi spiego perché la guerra dei dazi tra Usa e Cina non è una sventura per l’Ue

Di Antonino Alì

L’imposizione di dazi da parte dell’amministrazione Trump sin dall’inizio del proprio mandato ha determinato l’avvio di quella che, forse in maniera anche troppo semplicistica, è stata definita una guerra commerciale. L’amministrazione Usa ha concentrato la sua azione nei confronti di alcuni Stati, in particolare la Cina e alcuni Stati membri dell’Unione europea colpevoli di determinare un enorme disavanzo commerciale. Sono stati così riscoperti i dazi doganali, uno strumento che sembrava ormai superato a fronte delle dinamiche della globalizzazione dei mercati. Gli Usa hanno fatto riferimento alla sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962, che attribuisce all’esecutivo il potere di imporre o aumentare i dazi alle importazioni che minacciano la sicurezza nazionale. Sulla base di una duplice indagine del Dipartimento del commercio richiesta dal presidente Donald Trump nel 2017 e completata nel gennaio del 2018, l’amministrazione americana ha deciso di imporre dazi nei settori dell’alluminio e dell’acciaio. Alcuni dazi erano già stati adottati in precedenza dagli Usa, ma in questo caso si è utilizzata una clausola di sicurezza nazionale per limitare le importazioni di determinati prodotti.

Le preoccupazioni nel campo della sicurezza nazionale non mancano tuttavia neppure sul fronte dell’Unione europea. L’Ue, infatti, deve fronteggiare l’enorme squilibrio tra i propri investimenti all’estero e quelli stranieri (e cinesi, in particolare) nel proprio territorio. Questa situazione è acuita dal fatto che vengono prese di mira società europee operanti in settori tecnologici considerati di importanza strategica per l’economia europea. Non è un caso che in tempi abbastanza rapidi l’Unione abbia elaborato un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione (Regolamento 2019/452 del 19 marzo 2019) per motivi di sicurezza e ordine pubblico. Una disciplina che ha come scopo, da un lato, di evitare che gli Stati adottino forme di protezionismo “mascherato” con il pretesto della tutela della sicurezza nazionale e, dall’altro, salvaguardare l’interesse dell’Unione europea attraverso la tutela di progetti e programmi funzionali agli obiettivi dell’Unione nel suo complesso.

Questo assetto normativo è la conseguenza del progressivo rafforzamento della normativa statunitense e cinese nel campo del controllo degli investimenti diretti esteri stranieri, ma soprattutto della reazione alle acquisizioni sempre più consistenti da parte di imprese straniere (e in primis cinesi). Le preoccupazioni relative al ritardo tecnologico accumulato nel settore delle comunicazioni elettroniche (in particolare, del 5G) e dell’intelligenza artificiale sembrano divenute un driver rilevante per l’identificazione e la protezione dell’interesse europeo. Non va sottovalutata, al riguardo, il citato regolamento che rappresenta uno dei primi casi in cui l’espressione “interesse per l’Unione europea” viene utilizzata disinvoltamente in relazione alla sicurezza (economica) dell’Unione, intesa come contributo importante alla crescita economica, all’occupazione e alla competitività dell’Unione.

L’Unione europea si trova oggi in una situazione paradossale: pur criticando i dazi commerciali americani e le altre misure protezionistiche, essa al momento sembra trarre vantaggio, da un punto di vista commerciale, dallo scontro tra gli Stati Uniti e la Cina in virtù di un aumento delle sue esportazioni verso questi mercati. Si tratta di un quadro contingente e transitorio, che tuttavia non esime dal compito di fornire una chiara definizione del concetto di “interesse europeo” e della sua relazione con i molteplici e non sempre allineati interessi degli Stati membri dell’Ue.

Antonino Alì, professore di diritto internazionale nell’Università degli Studi di Trento



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