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Africa, Mediterraneo e Nato. Il puzzle diplomatico di Di Maio. Il punto di Bressan

Bene il focus sull’Africa voluto dal neo ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ma prima di tutto sarebbe bene partire dalla definizione degli interessi da tutelare, “tre o quattro priorità da cui partire” e su cui è necessaria una riflessione “che coinvolga tutto il Parlamento”. Per la Difesa, occorre confermare la convinta partecipazione alla Nato, ma ci sono anche da seguire le novità sul fronte europeo, con i dubbi strategici che non dissolvono “una grande opportunità industriale”. È il punto di Matteo Bressan, analista e docente, direttore dell’Osservatorio per la stabilità e sicurezza del Mediterraneo allargato (OssMed) della Lumsa, che Formiche.net ha sentito per capire quali saranno le priorità del nuovo governo verso l’Africa, Mediterraneo e oltre. Intanto, c’è da registrare una certa assenza di dibattito, politico e non solo, su alcune dinamiche rilevanti poco oltre i nostri confini.

Domenica scorsa si è tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali in Tunisia, con effetti che potranno riguardare tanti nostri interessi. Eppure, nessuno da noi ne parla. La politica internazionale perde di fascino?

Questo è il dato che emerge, a prescindere dai risultati, comunque intricati, del voto tunisino. Eppure, la Tunisia è solo un esempio, a cui si potrebbe aggiungere quando sta accadendo in Arabia Saudita. Purtroppo, viviamo una fase in cui importanti appuntamenti elettorali esteri o rilevanti dossier relativi ad alcuni punti caldi del globo (tra cui, appunto, il conflitto latente e la proxy war in corso nel Golfo tra Arabia Saudita e Iran) sembrano trovare poco spazio nell’agenda della politica italiana. Ciò vale, paradossalmente, anche per un dossier prioritario come quello libico.

A proposito di Libia, cosa dovrà fare il nuovo governo?

Su un tema così intricato, l’Italia deve prima di tutto evitare di isolarsi o, peggio ancora, di approcciare la questione in maniera scomposta rispetto alla Francia. Temo che occorra ammettere, con grande lucidità, che ci sono tavoli su cui bisogna incidere maggiormente. Servirà una decisa azione diplomatica, ma anche un attivismo politico per far capire che l’Italia è un Paese con un peso specifico all’interno di una Unione europea su cui incombe la Brexit. Serve maggiore forza nell’approccio alla questione libica, magari attraverso il rilancio di iniziative come la conferenza di Palermo.

Tra l’altro, nel momento di insediamento, il neo ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha detto che la priorità del suo dicastero sarà l’Africa.

L’ho trovata un’uscita condivisibile. Eppure, oltre le dichiarazioni, noto che l’approccio italiano al continente africano è un po’ estemporaneo, non da oggi e nemmeno da ieri, ma da diversi anni. Occorre ripartire da una riflessione che spetta al Parlamento: stabilire il livello di ambizione del Paese e le priorità della sua azione esterna, ricordandoci che lo strumento militare è a supporto di una visione, di una idea di difesa degli interessi nazionali da cui poi declinare tutto il resto. Mi trovo in sintonia con quanto detto da Di Maio. Dall’Africa arrivano sfide che vanno oltre la Libia, che intersecano flussi migratori, traffici illeciti di ogni genere, potenzialità e criticità su cui da anni di dice che l’Europa debba fare qualcosa. Si ricorderà lo slogan del “Piano Marshall per l’Africa”. Poi, se tutto questo rimane nei proclami, non possiamo di certo lamentarci quando altri attori, Cina in testa, penetrano nel continente con programmi di investimento in grado di inserirsi nelle agende politiche di quei Paesi. Non è più la fase storica in cui l’Europa può non prendere decisioni.

Perché?

Perché è una sfida che ci riguarda da vicino. L’instabilità di alcune regioni, come l’Africa subsahariana e il Sahel, impatta in maniera determinante sulla nostra sicurezza. Parliamo di network criminali e terroristici molto sviluppati, come quello di al-Qaida, che non fa il rumore mediatico che faceva l’Isis, ma che gestisce traffici di risorse, armi ed esseri umani in maniera ben più efficace.

La Nato può avere un ruolo?

Con l’Hub di Napoli, la Nato ha finalmente capito che c’è un fianco sud su cui focalizzarsi, ma deve acquisire sicuramente maggiore confidenza sul coinvolgimento che può avere nella regione. Il passo è molto importante. L’auspicio è che l’Africa diventi il punto centrale dell’agenda non solo italiana, ma anche di tutti i Paesi europei che si affacciano sulla sponda sud.

Ma si può davvero immaginare una politica europea comune verso l’Africa? Spesso gli interessi degli Stati, a partire da Italia e Francia sono sembrati divergenti.

Che sia una fase complicata per lo stato di salute dei rapporti tra alcuni Paesi europei non lo scopriamo certo oggi. È però abbastanza pacifico che Francia e Italia debbano affrontare insieme alcune questioni. Dall’Africa arriva una sfida sistemica, che ci vede protagonisti anche rispetto ad attori con logiche e capacità molto più importanti delle nostre. In tal senso, il nuovo esecutivo dovrà portare avanti le attività di cooperazione già poste in essere con diverse visite di alto livello, come quella recente a Gibuti del vice ministro Emanuela Del Re e dell’ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta. Gibuti rappresenta infatti un choke-point fondamentale per avere una lettura delle nostre priorità, a partire dalla liberà di navigazione e di accesso ai mari. Siamo la seconda manifattura europea, trasformiamo materie prima e la sicurezza marittima è per noi essenziale. Per lo più in un Mediterraneo sempre più instabile che ci impone di proiettare anche capacità militari per difendere la nostra economia e la nostra sicurezza.

Diverse visite, anche da parte del premier Conte, hanno riguardato altri Paesi del Corno d’Africa, come Eritrea e Somalia.

Le dinamiche del Corno d’Africa sono particolarmente complesse, ma anche altrettanto rilevanti per gli interessi di cui parlavo prima. Tutto però deve essere patrimonio condiviso in Parlamento. Dobbiamo sapere quali sono i gangli vitali per la nostra sicurezza, a partire dalle crisi che, influenzando i flussi di merci, hanno impatti devastanti sulla nostra economia. Da qui nascono sfide e opportunità, per noi legate anche a ciò che potrà fare la nuova Commissione europea. O l’Ue riuscirà a essere attore globale in un’area così vicina, oppure rischiamo l’irrilevanza.

Occorre secondo lei rivedere gli impegni militari?

Dobbiamo fare in modo che la nostra presenza all’estero, anche militare, abbia maggiore coinvolgimento della componente diplomatica. Non è pensabile, solo per fare un esempio, che si lancino iniziative diplomatiche sui Balcani occidentali senza che sia coinvolto il nostro Paese, dopo anni e anni di cui abbiamo il comando della missione Nato Kfor. Significa che abbiamo difficoltà a muoverci in modo sinergico in aree in cui operiamo con le Forze armate, dove tra l’altro i nostri comandanti svolgono spesso un ruolo che va ben oltre la missione militare. Il comandante di una missione Onu o Nato è una personalità autorevole che dialoga a 360 gradi con attori politici, religiosi, Ong, e con tutti i rappresentanti della società. È una capacità riconosciuta moltissimo agli italiani, in Kosovo come in Libano, fino all’Afghanistan. Se, però, questo ruolo non è accompagnato da un’idea complessiva degli interessi e della strategia di sicurezza nazionale, rischia di non avere effetto.

Come muoversi dunque?

La politica non deve chiudersi. Deve piuttosto identificare tre o quattro priorità da difendere e da tutelare, sempre nel solco tradizionale dell’euro-atlantismo, ma consapevole della necessità di fare uno scatto in avanti. Il rischio, altrimenti, è non riuscire a seguire il passo degli altri.

Nonostante “l’Africa come priorità” e gli sforzi europei, il primo incontro di Di Maio è stato con ambasciatore degli Usa a Roma Lewis Eisenberg, in attesa che Mike Pompeo venga a Roma a inizio ottobre. C’è l’obiettivo di rafforzare la sponda atlantica?

Non mi stupisce che il neo ministro degli Esteri abbia incontrato l’ambasciatore Eisenberg. Era abbastanza scontato visti gli importanti rapporti tra Italia e Stati Uniti e le molteplici considerazioni di carattere geopolitico che essi comportano. Alla luce della sempre maggior attenzione nei confronti dell’Asia e, considerato il parziale disimpegno degli Usa da alcuni quadranti di crisi, non possiamo pensare che gli Stati Uniti possano continuare a risolvere puntualmente i problemi a ridosso dei Paesi europei, chiamati dunque a fare di più. Ad oggi, gli Usa restano in grado di essere presenti su tutti i tavoli, ma Trump è tutt’altro che propenso a confermare i vari impegni militari in teatri di crisi non sempre compresi dall’elettorato statunitense.

In tal senso, vede la nascente Difesa europea come un’opportunità?

Sì, se focalizziamo la riflessione sul Fondo europeo di Difesa. Non è infatti quella che stiamo vivendo la fase storica, considerate tutte le note difficoltà, per fare un passo in avanti verso un esercito comune. C’è però la possibilità di offrire all’industria europea un ampio mercato domestico in cui sviluppare sistemi tecnologicamente all’avanguardia ed economicamente sostenibili, dandole tra l’altro l’opportunità di essere maggiormente competitiva sul fronte dell’export. Per l’industria è un passo importante per mantenere la tecnologia sovrana, non perdere autonomia strategica e sviluppare capacità da poter esportare in altri mercati. Spesso si dimentica che la somma complessiva delle spese per la Difesa dei Paesi europei non è così tanto lontana da quella Usa.

Anche se a livello di efficienza siamo piuttosto lontani dagli americani.

C’è sicuramente una grave frammentazione, ma ciò lascia l’opportunità di creare un grande mercato in Europa. Superando le gelosie di ogni Paese, ci saranno da cogliere 13 miliardi di euro per ricerca e sviluppo. Per uno Stato come il nostro, che vede coinvolti 160mila posti di lavoro nel comparto difesa e aerospazio, è una sfida rilevante. Il governo dovrà giocarsi le proprie carte nel migliore dei modi. Per molti, le risorse messe a disposizione da Bruxelles non sono così allettanti. Ma in realtà è un primo segnale che conferma quanto l’Europa abbia iniziato a comprendere l’importanza di mantenere alcune capacità tecnologiche e avere autonomia.

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