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Così Cina e Russia stanno hackerando le democrazie liberali. L’analisi di Terzi

Di Giulio Terzi di Sant'Agata

L’affermarsi di forme autoritarie di governo attraverso il ricorso massiccio alle tecnologie dell’informazione costituisce la minaccia più grave tra quelle direttamente rivolte alle democrazie liberali dell’occidente e ai princìpi fondanti dello Stato di diritto. Certo, può sembrare paradossale che il prodigioso sviluppo della scienza e della libertà nella seconda metà del XX secolo e ancora nei primi anni del XXI sia avvenuto proprio per effetto di tecnologie che ora, in misura crescente, servono a diffondere e consolidare regimi repressivi, attraverso un controllo orwelliano delle popolazioni all’interno e all’esterno dei loro Paesi. Le stesse tecnologie alimentano, nelle mani sbagliate, avventure neo-imperialiste, ambizioni di dominio regionale e destabilizzano processi elettorali, ordine pubblico e coesione sociale. Ne sono vittime le democrazie liberali. Paesi dipinti come nemici dagli autocrati che vogliono imporre le loro nuove regole al mondo. Al G20 di Osaka, Putin si è presentato dichiarando che “il liberalismo è obsoleto”. Quindi, secondo il Cremlino, deve essere rimosso per fare spazio ai “valori eurasiatici”, autoritari e religiosi della Russia ortodossa. Sempre al G20 l’alleato definito da Putin “amico fraterno”, Xi Jinping, gli ha fatto eco. Ha invocato “un commercio mondiale equo”: il che significa, nell’accezione cinese, un commercio basato su regole senza reciprocità, scritte e imposte dalla Cina. Negli ultimi cinque anni, Russia e Cina hanno fatto crescente ricorso all’unilaterale utilizzo della forza: in Ucraina e in Siria, la Russia; nel Mar della Cina, Pechino. I due Paesi hanno sviluppato impressionanti capacità nelle ICT per attività aggressive di intelligence, per disinformazione, con sottrazioni di immense quantità di dati informatici, di conoscenze scientifiche e industriali di ogni natura e grande valore economico.

Quella che viene definita quinta dimensione della sicurezza – il dominio cyber – è teatro di un confronto di intensità crescente. Si traduce in episodi di cyber war non dichiarati, non riconosciuti, raramente attribuibili. Quella cyber è l’unica dimensione della sicurezza e della difesa priva di un affidabile quadro giuridico internazionale, nonostante i molti sforzi fatti per crearlo dal G7, dall’Onu e dalla Nato. Si sente, e preoccupa, la totale assenza di misure di fiducia che esistono invece in altri comparti tradizionali per mitigare minaccia e rischio. In questa realtà senza confini e priva di regole si stanno sviluppando tecnologie – il 5G, l’Internet delle cose, l’intelligenza artificiale – che moltiplicheranno di almeno mille volte, in pochissimi anni, se non mesi, automatismi tra macchine, velocità di raccolta, elaborazione, trasmissione e stoccaggio dei metadati. Le categorie alle quali eravamo abituati nel discutere di intelligence perdono, almeno in parte, il loro significato. Nel senso che l’area della Sigint (signals intelligence), e tutto ciò che vi si collega, è destinata a essere dominante. Mentre quella caratterizzata dall’intervento dell’uomo, Humint (human intelligence) continuerà a essere di estrema importanza, ma richiederà enormi sforzi di adattamento, in termini di risorse e di specialisti delle nuove tecnologie, specialmente quelle dell’IA. Mentre l’attività di intelligence ha da sempre costituito una componente essenziale, ma distinta, nella definizione della strategia militare e nell’eseguirla, la pervasività assoluta del cyber trasforma oggi l’attività informativa – attraverso l’acquisizione e l’elaborazione dei dati – in elemento dominante nella cyber-warfare e nella cyber enabled information warfare.

Quest’ultima è divenuta assai preoccupante nel corso delle elezioni presidenziali americane del 2016 e di quelle poi svoltesi in diversi Paesi dell’Ue. Alla vigilia delle elezioni europee erano più di due terzi gli elettori che si dicevano allarmati da manipolazioni dell’opinione pubblica, con attacchi contro candidati scomodi a Mosca, sui social media e con informazioni completamente false, o storie costruite con tecniche virtuali. Per il secondo anno consecutivo la Relazione sulla politica dell’informazione, presentata lo scorso gennaio al Parlamento dalla nostra intelligence, metteva l’accento su tale minaccia. Un’altra, riguardava nella stessa relazione l’elevato rischio di spionaggio militare, industriale, economico da parte della Cina. In particolare nel comparto della difesa e dell’aerospazio, delle telecomunicazioni e relative reti, terrestri e mobili, dell’energia. Le lezioni da trarre sono diverse e riguardano un po’ tutti i principali Paesi occidentali. La prima è che l’aggressività di Russia e Cina contro le democrazie liberali e lo Stato di diritto quale base dell’ordinamento internazionale è destinata a durare nel tempo, ma non deve intimorirci. La posta in gioco è troppo alta per rinunciare, e le risorse materiali, intellettuali ed etiche di cui disponiamo non devono in alcun modo essere sottovalutate.

L’autoritarismo digitale durerà, ma il mondo online offre anche straordinarie opportunità di crescita per le libertà. I governi occidentali devono assicurare un ecosistema diversificato e ben regolato nelle tecnologie dell’informazione, devono limitare le situazioni di monopolio nei media tradizionali e non, mantenendo un’informazione pubblica finanziata dallo Stato, il controllo dei finanziamenti, la correttezza della propaganda politica e la lotta alla disinformazione. Analogo impegno deve riguardare la collaborazione internazionale e l’aiuto allo sviluppo, promuovendo il rispetto dei diritti individuali e la sovranità degli Stati. Last but not least, i Paesi occidentali devono essere preparati a competere, ed eccellere, nello sviluppo delle tecnologie dell’informazione per proteggere le proprie società e istituzioni dalle autocrazie digitali che le minacciano.



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