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La Difesa non può non essere interforze. E su export e dual use… Parla Di Paola

Investimenti, spirito interforze e programmi europei. Sono solo alcuni dei temi su cui si dovrà lavorare secondo l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, già ministro della Difesa e capo di Stato maggiore della Difesa, che Formiche.net ha raggiunto per capire quali sono le sfide più rilevanti del settore, in un momento in cui la crisi di governo e la formazione del nuovo esecutivo hanno alimentato diversi interrogativi. E se il dual use “non deve far perdere lo scopo prioritario delle Forze armate”, la questione migratoria va affrontata “in una chiave di coesione interna, governativa e parlamentare, ed europea”.

Ammiraglio, in questa fase politica i temi della Difesa sono apparsi in secondo piano nonostante tante sfide e dossier aperti. C’è un problema di cultura della Difesa nel nostro Paese?

Certamente sì. Che ci sia un vuoto di cultura nel nostro Paese, sia a livello di opinione pubblica, e dunque tra i cittadini, sia a livello di classe politica, è abbastanza evidente. È purtroppo un dato di fatto che l’attenzione ai temi della Difesa sia piuttosto attenuata, elemento che chiama in causa tutti, la classe politica e il mondo militare, per cercare di recuperare sul fronte culturale.

Nell’esperienza di governo giallo-verde, il tema della gestione migratoria è stato spesso al centro di frizioni tra ministri di Difesa e Interno. È una dinamica da superare?

Sicuramente una certa serenità va recuperata. Il problema migratorio è di lungo periodo, e va dunque affrontato in chiave di coesione governativa e parlamentare. Si tratta di una questione di ampia portata che riguarda il nostro Paese e l’intero contesto europeo. Solo con una coesione interna ed europea si può mitigare un problema che si esplica in tanti aspetti, dal controllo alla redistribuzione, fino all’intervento nei Paesi d’origine. Non è un problema di questo o di quel governo, ma di una politica comune italiana ed europea.

Dossier aperti, spirito interforze a programmi da avviare. Le sfide per la politica di Difesa sono molte. Da dove iniziare secondo lei?

Si deve lavorare in tutte le direzioni. Sicuramente c’è da rafforzare lo spirito interforze, ma ciò non riguarda puramente la questione delle strutture e sovrastrutture. È una questione di convinzione di tutta la classe militare, a partire da quelli che ne hanno la guida. Lo spirito interforze è un bene per le Forze armate, per la Difesa e per il Paese. Prima di tutto, bisogna capire che non c’è prima il bene di una o dell’altra Forza armata, ma il bene delle Forze armate. È una questione culturale: viene prima il bene delle Forze armate che, di conseguenza, è anche il bene della mia. Se ne deve convincere tutta la classe militare, e soprattutto i vertici, chiamati a giocare in questo senso. Lo ritengo un punto di fondo essenziale: una vera, sincera e profonda cultura interforze di tutta la classe militare. Il bene della Difesa è il bene di tutti, che diventa poi il bene di ognuno. È un concetto di fondo che non sempre è compreso da tutti.

E per quanto riguarda gli investimenti?

Anche il problema delle risorse è evidente, andando a incidere sugli investimenti e sull’efficienza delle Forze armate che devono essere all’altezza delle sfide e degli altri Paesi europei. Affinché questo avvenga, occorre un certo livello di investimenti che garantisca le necessarie capacità operative e le risorse determinanti per sostenerle. Non riguarda questo o quel governo, visto che il problema va piuttosto indietro negli anni.

Possono aiutare le novità in arrivo da Bruxelles, a partire dal Fondo europeo per la Difesa che dovrebbe dotarsi di 13 miliardi di euro per il periodo 2021-2027? L’Italia deve continuare a sostenere tali iniziative?

Su questo non c’è alcun dubbio, anche se i dubbi, almeno a parole, non ce l’ha nessuno. Le risorse europee saranno sicuramente importanti, e dunque è necessario essere parte del gioco insieme agli altri Paesi, sia a livello politico, sia a livello militare e industriale. Sono aspetti in cui bisogna veramente investire.

Tra le questioni industriali c’è anche il supporto all’export. Negli ultimi 14 mesi ci sono state diverse iniziative sul tema degli accordi governo-governo (g2g). Occorre procedere in questa direzione?

La questione degli accordi g2g è molto importante. L’export è oggi una componente rilevantissima dei bilanci delle nostri industrie della difesa. Non lo dico io, ma gli amministratori delegati delle principali aziende, i quali notano come una grossa fetta del business risieda nelle esportazioni. Non si esportano solo singole capacità, ma anche know how, e i Paesi che acquistano si aspettano che la vendita sia sostenuta dal Paese da cui avviene l’esportazione, chiamato a impegnarsi con accordi g2g. È uno strumento fondamentale, non a caso largamente utilizzato dai Paesi simili al nostro. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Si tratta solo di fare proprie le best practice degli altri.

E sul dual use? Il tema è dibattuto tra chi sostiene che si vada a ledere la specificità delle capacità e dello strumento militare e chi invece lo considera un’opportunità per rilanciare gli investimenti. Come la vede?

Il dual use è sempre esistito ed è giusto che esista. Il problema è il significato che si attribuisce a questa espressione. Che le capacità militari e operative delle Forze armate possano anche essere utilizzate per questioni non militari è indubbio e giusto. Tuttavia, non si può, nel nome del dual use, perdere lo scopo prioritario delle Forze armate, che è quello di avare capacità operative per la Difesa del Paese, all’altezza di quelle dei Paesi europei e atlantici con cui operano. Questo è il punto. L’enfasi sulla dualità non deve far perdere l’attenzione rispetto ai compiti prioritari dello strumento militare.

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