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Perché il mercato unico europeo è ancora zoppo. L’analisi di Pennisi

Il nuovo governo dell’Italia si dichiara europeista. Anzi, alcune malelingue sussurrano che è stato formato con il sostegno delle istituzioni dell’Unione europea (Ue), in primo luogo della Commissione europea. Nel processo, sarebbe diventato europeista anche il capo politico del Movimento 5 Stelle (M5S), ed ora ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Luigi Di Maio, che sino a pochi mesi fa si dichiarava euroscettico e flirtava con gli anti-europeisti gilet gialli. Indubbiamente, non vengono messe più in discussione le regole dell’unione monetaria e sono presentate richieste ragionevoli in materia di flessibilità, limitandola, pare, agli investimento verdi. Tuttavia, nessuno solleva che fine ha fatto, dove sta andando, il mercato unico e che apporto stia dando l’Italia. Ed è domanda fondamentale che a Bruxelles ci si pone nel valutare, per così dire, il tasso di europeismo dell’Italia, come di altri Stati membri dell’Ue.

In effetti, prima del crollo del muro di Berlino (trent’anni fa), il progetto dell’unione monetaria europea veniva visto come un risultato inevitabile di quel mercato unico che, sotto lo stimolo della Commissione presieduta da Jacques Delors, si stava mettendo in piedi sin dalla seconda metà degli anni Ottanta. L’argomento – peraltro giustificatissimo – era che senza una moneta unica il mercato unico non avrebbe potuto funzionare e non se ne sarebbero colti i benefici in materia di produttività, competitività, miglioramento tecnologico ed organizzativo. Il 1992, anno in cui si sarebbe dovuto completare il mercato unico, si ponevano le basi per la moneta unica. Da allora, il mercato unico è stato dato per completato, e l’attenzione si è spostata sull’unione monetaria.

In effetti, il mercato unico è rimasto monco, ed in certe aree sono stati fatti passi indietro di recente proprio ad opera dell’Italia. Andiamo con ordine. Il mercato unico è un mercato al cui interno vigono quattro libertà di circolazione: merci, servizi, capitali, lavoratori. Da decenni, il mercato unico delle merci è sostanzialmente operativo. Si può dire, più o meno, lo stesso per quello dei lavoratori, anche se con sistemi di welfare marcatamente differenti (specialmente in materia previdenziale) i lavoratori che vanno in differenti Paesi subiscono severe penalizzazioni; nel lontano 2003 un gruppo di economisti (tra cui chi scrive) propose al termine di un convegno organizzato dalla Banca mondiale nell’isola di Sandhamn nei pressi di Stoccolma che gli Stati almeno dell’unione monetaria adottassero un sistema previdenziale contributivo (sulla linea di quelli allora introdotti in Svezia ed in Italia) ed un mercato dei capitali comune per i fondi pensione. Non se ne fece nulla. Pare non riesca a decollare neanche l’assicurazione comune europea contro la disoccupazione. Il mercato comune europeo dei capitali è praticamente neanche allo stato di abbozzo, con la conseguenza che l’unione bancaria resta zoppa e la stessa unione monetaria rimane incompleta.

In materia di mercato unico dei servizi si sono fatti passi indietro. Non solo perché una sessantina di ordini professionali intendono restare nazionali e non hanno alcun desiderio di diventare “europei”. Ma anche perché gruppi di pressione hanno trovato paladini in movimenti che si dichiaravano almeno “euro-perplessi”. Ad esempio, in Italia il M5S è riuscito a fare sì che, in spregio alle direttive per il mercato unico europeo, le concessioni per le spiagge venissero estese per tre lustri e che si adottassero misure a favore delle attuali organizzazioni di taxi tese a bloccare innovazioni come Uber ed a mantenere le tariffe più alte ed il servizio più carente d’Europa. Non che altri Stati dell’Ue abbiano razzolato bene: ad esempio, in base alla “eccezione culturale francese”, Parigi adotta misure severamente protezionistiche per l’audiovisivo ed a favore dei negozi di libri. E via discorrendo. Di quel che c’è del mercato unico sembrano trarre vantaggio la Francia e le Germania, con la creazione di campioni industriali europei che sono in sostanza franco-tedeschi. Nel contempo, mentre una decade orsono dieci delle 40 maggiori società per azioni mondiali erano europee, ora ne sono rimaste solo due. Non dobbiamo sorprenderci se la produttività ristagna. E se ci verranno fatte domande imbarazzanti in materia di concessioni balneari e di taxi.

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