“Idoneità e autorità di trattare, giudicare, risolvere, determinate questioni. In particolare, nel diritto processuale, misura della giurisdizione attribuita a ciascun ufficio giudiziario”. È questa la definizione fornita da Treccani per il termine “competenza”. Ed è proprio in un momento storico in cui la competenza sembra non essere più riconosciuta come fattore imprescindibile per la conformità alla trattazione di un determinato argomento che occorre rammentare come solo le persone competenti su una determinata materia possono essere considerate fonti valide di informazione.
È in questo alveo che risiede il dibattito in merito alla libertà prescrittiva del medico e ai vincoli economici, comprensibili nella situazione di limitatezza di risorse pubbliche che Regioni e aziende ospedaliere devono gestire per il contenimento della spesa sanitaria. Se è indubbio, però, che il medico abbia il dovere di assegnare a ogni paziente la cura che risulti più efficace, ma al contempo anche più efficiente, è altrettanto vero che spetta al medico, per ragioni legate proprio a quella stessa competenza sopracitata, definire la cura migliore per il proprio paziente.
La percezione diffusa, infatti, è che gli obiettivi economici stiano in qualche modo condizionando in maniera rilevante l’agire del medico, con modalità difficilmente conciliabili sia con il diritto alla salute garantito dalla nostra stessa Carta costituzionale, sia con la libertà prescrittiva sancita dal Codice deontologico dei medici. Il contenimento della spesa sanitaria, infatti, dovrebbe essere interpretato come un presupposto, e non come un fine.
Resta dunque irrisolto il quesito su come riuscire a bilanciare la migliore cura possibile con la sostenibilità finanziaria, e ciò a maggior ragione in un contesto di innovazione delle cure e delle diagnosi, che sempre più spesso pongono al medico il dilemma di quali siano i bisogni clinici da soddisfare in via prioritaria e di quali pazienti eventualmente privilegiare.
Tra le soluzioni auspicabili, quella di puntare piuttosto su una “responsabilizzazione prescrittiva del medico”, ove il sanitario si faccia carico di individuare e scegliere il trattamento più appropriato rispetto al paziente, senza trascurare l’utilizzo ottimale delle risorse disponibili, ma neanche rinunciando a garantire il conseguimento dei livelli essenziali di assistenza a cui ogni paziente ha diritto.
Si tratta di generare un rapporto di fiducia fra clinico e amministrazione, confidando nel perseguimento finale del medico di un risparmio, quando possibile, che garantisca la salvaguardia di alcuni dei princìpi che fanno del nostro Sistema sanitario uno dei migliori ovvero l’universalità e l’equità. Il rischio che stiamo correndo, infatti, è che equiparando, da un punto di vista di priorità, il criterio economicistico al benessere del paziente dietro la proclamazione di un diritto alla salute universalmente garantito si nasconda in realtà una relativizzazione dello stesso.
Onde evitare un collasso del Servizio sanitario nazionale e un aggravamento della perdita di fiducia da parte dei pazienti nei confronti dei medici – spesso non percepiti come soggetti proattivi di una professione virtuosa e dalla profonda dignità morale, ma quali esecutori di protocolli condizionati da vincoli amministrativi – urge individuare e applicare quanto prima un bilanciamento ottimale tra efficacia ed efficienza, riconoscendo al clinico il diritto/dovere di attuare decisioni talora drammatiche, e rammentando nel contempo l’eticità della professione medica e la centralità dei diritti del paziente.
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