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Nato, Ue e sicurezza nazionale. Gli auspici dell’amb. Castellaneta per il Conte 2

Un ministro degli Esteri che possa essere “operativo dal primo giorno”, un’unica voce dell’esecutivo per le questioni di politica estera e l’introduzione di un consigliere per la sicurezza nazionale che affianchi il premier. Sono gli auspici per il governo giallorosso di Giovanni Castellaneta, attuale segretario generale dell’Iniziativa adriatico-ionica (Iai), presidente di doBank, con alle spalle una lunga carriera diplomatica che lo ha visto anche ambasciatore d’Italia in Iran (1992-1995) e negli Stati Uniti (2005-2009). Lo abbiamo sentito per capire come mai, nella bozza di programma di governo allegato al voto odierno sulla piattaforma Rousseau, ci siano scarsi riferimenti alla politica estera e di difesa, ma anche per comprendere come si dovrà muovere il prossimo numero uno della Farnesina in tanti dossier spinosi, con l’assemblea generale dell’Onu che si avvicina e il rapporto con gli Stati Uniti e la Nato da rilanciare.

Ambasciatore, nella bozza di programma di governo non ci sono riferimenti alla politica estera, se non per il lavoro con la nuova Commissione europea sui temi di bilancio. Come interpreta tale assenza?

Volendola vedere dal lato positivo, potrebbe significare che non ci sono elementi di differenziazione tra le due formazioni politiche, e dunque che non c’è bisogno di puntualizzare eventuali divergenze. In tal senso, significherebbe che i capisaldi della politica estera, Alleanza Atlantica ed Europa, non hanno bisogno di essere richiamati perché dati per scontati. Difatti, i protagonisti della formazione del governo, in testa il presidente del Consiglio incaricato, li hanno già ribaditi a più riprese. Certo, sarebbe forse stato più auspicabile ribadire i capisaldi della politica estera nel programma. Repetita iuvant.

Comunque, i temi della politica estera sono apparsi marginali in questa complessa fase politica.

Direi assenti, se non per quanto riguarda i rapporti con Bruxelles e l’Unione europea. Anche questo potrebbe però essere letto positivamente. Bruxelles potrebbe infatti non essere più considerata questione di politica estera, ma di politica interna. Un conto è considerare le relazioni con l’Ue esterne al nostro perimetro, un altro è ritenere l’Unione la nostra casa comune. Tant’è vero che a Bruxelles abbiamo tre rappresentanze diplomatiche oltre al consolato: presso la Nato, presso l’Ue e il nostro ambasciatore che cura i rapporti bilaterali con il Belgio. In tal senso, trovo positivo che si sia parlato molto di temi europei, che così sembrano essere considerati un’estensione della politica interna italiana, soprattutto per ciò che riguarda gli aspetti economico-finanziari, di sviluppo e ambientali. Se ci abituiamo a considerare Bruxelles la capitale dell’Ue, e non del Belgio, è già un passo in avanti.

Vale anche per la Difesa, visto il piano dell’Ue tra il nuovo fondo europeo e la Pesco?

Sono cose di cui si sta parlando molto, ma ancora non si intravedono grandi risultati. Quelli della difesa europea sono traguardi auspicabili e condivisibili, ma dubito che siano nell’orizzonte di un governo che vuole durare fino alle prossime scadenze elettorali. Certo, è positivo mettere in moto i nuovi strumenti, dal Fondo alla collaborazione tra le industrie nazionali, ma si tratta di aspetti secondari in un’agenda di priorità che conserva ai primi posti i temi di bilancio e finanziari. In più, la Nato rimane il nostro riferimento più forte, a cui forse, solo in futuro, potrà affiancarsi la Difesa europea.

A proposito di rapporti transatlantici, nell’esperienza di governo gialloverde sono emerse le preoccupazioni degli Stati Uniti per il memorandum siglato con la Cina. I timori restano fondati?

Credo sia stato ampiamente spiegato che il memorandum non significa un accordo cogente per portare i rapporti italo-cinesi su un piano di alleanza. È stata evidenziata la difesa degli interessi strategici nazionali, così che la Cina possa essere un partner commerciale ma non un partner strategico nei settori sensibili. A tal proposito, mi permetto di suggerire che sarebbe una cosa innovativa se questo governo potesse affrontare un tema che appare minore, ma che in realtà non lo è: l’introduzione della figura di un consigliere per la sicurezza nazionale.

Ci spieghi meglio.

Il consigliere per la sicurezza nazionale esiste in tutti i maggiori Paesi occidentali. La figura più nota è il National security advisor del presidente degli Stati Uniti, ma esiste, seppur nelle diverse accezioni, anche in tutte le altri grandi nazioni, tra cui Germania, Gran Bretagna, Spagna e Francia. Abbraccia i temi della sicurezza visti in un’ottica di definizione degli interessi nazionali, non solo per gli aspetti della politica internazionale, ma anche per la difesa, la tecnologia, la protezione degli aspetti strategici e l’economia. Il consigliere per la sicurezza nazionale collaborerebbe con il presidente del Consiglio, interfacciandosi con tutti i ministeri che trattano la difesa nazionale: Esteri, Interno, Difesa e Tesoro.

Quale consiglio darebbe al nascente governo nel campo della politica estera?

Più che un consiglio, un auspicio: che nella formazione dell’esecutivo il ministro degli Esteri sia in grado di essere operativo dal primo giorno. Alla Farnesina troverà un’amministrazione di notevole efficienza, guidata da un segretario generale di grande esperienza. Servirà un ministro che, dal momento dell’ingresso al dicastero, possa operare, e ciò sarebbe di grande utilità al Paese in vista delle tante scadenze sul fronte internazionale. Prima di tutto, tra un paio di settimane, l’appuntamento annuale dell’Assemblea generale dell’Onu, dove tanti governi vorranno testare e verificare le credenziali di politica estera del nuovo esecutivo italiano.

Tra le urgenze di cui parla c’è anche la partita per il commissario europeo?

Non la definirei un’urgenza. Sin dall’inizio della crisi si è detto che fosse più opportuno affidare l’individuazione del commissario a un governo pienamente legittimato dal Parlamento, e non a un governo dimissionario. Una volta che ci sarà il nuovo esecutivo, credo non sarà difficile individuare una persona capace che possa prendere in mano il portafoglio che gli verrà assegnato, che mi sembra possa essere di maggior rilievo rispetto a ciò a cui potevamo aspirare con il governo precedente, considerato, sotto certi aspetti, antagonista all’Ue. Questo nuovo esecutivo si presenterebbe sicuramente con credenziali europee più forti. Non c’è ragione perché un governo europeista, di un Paese del peso dell’Italia, non abbia un portafoglio adeguato e di rilievo. Che ciò sia utile all’Italia è però secondario. Il commissario che andrà a Bruxelles lavorerà infatti per l’Europa e non per l’Italia. D’altra parte, ci sono altri modi per difendere gli interessi italiani, a partire dall’attività dei ministri del governo nazionale.

Tornando alla bozza del programma di governo, mancano anche riferimenti alla Difesa ad eccezione di un accenno alla valorizzazione del personale. C’è un gap, nel nostro Paese, sulla cultura della Difesa?

Sicuramente sì, e questo perché è vista come guerra e non come difesa, come rischio elevato rispetto agli impieghi del personale e dunque sempre con una certa ritrosia e timidezza. Comunque, ogni Paese ha la politica di difesa che si merita. Ciò significa che il popolo e i cittadini devono dare una spinta più forte affinché il governo si senta confortato nell’affrontare la politica estera e di difesa. Nel concreto, si tratta di comprendere quanto e quali missioni militari siano utili alla proiezione internazionale e agli interessi nazionali. Si parla ad esempio molto di un possibile ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, dove noi abbiamo un contingente importante. Si parla anche di ritiro dalla Siria e da altre zone, nell’ambito della volontà del presidente Trump di ridurre l’esposizione militare per presentarsi alle elezioni del 2020 con un bilancio positivo in termini generali e in termini di cessazione della perdita di vite umane. Ciò deve essere valutato.

Tra l’altro, lo stesso Trump ha riportato al centro della Nato il tema delle risorse e dell’obiettivo di spendere il 2% del Pil nella Difesa. L’Italia su questo rischia di perdere rilevanza?

L’Italia è sempre stato un membro leale e autorevole della Nato. Non ci siamo mai tirati indietro rispetto agli impegni presi. Bisogna dunque considerare il nostro contributo nell’insieme, comprese le basi militari che il Paese ospita. Non è solo un calcolo aritmetico. Occorre vedere i vari contributi in ottica generale che comprenda anche i ritorni per le nostre industrie della difesa. È chiaro che dobbiamo aumentare la collaborazione ed essere più incisivi, soprattutto sulle nuove frontiere della difesa: le telecomunicazioni, la logistica e le frontiere spaziali, visto anche il nuovo Comando spaziale degli Stati Uniti. Su tali aspetti dovremmo dare un forte contributo al di là della ripartizione delle spese effettive. È in atto una grande rivoluzione che sta portando il mondo a diventare tripolare, con Usa, Europa (spero), Cina e una Russia un po’ in disparte. Noi dobbiamo aumentare la collaborazione con gli Usa e con la Nato, la quale mi sembra rivivere una nuova fase in cui è tornata perno della difesa del mondo occidentale.

Vuole aggiungere qualcosa?

Mi lasci concludere con un altro auspicio, che il nuovo governo possa esprimersi in politica estera con un’unica voce, così da permettere ai diplomatici di poter presentare ai rispettivi interlocutori una sola posizione di governo. In passato, non solo in quello più recente, ci sono state varie posizioni espresse dall’esecutivo sui temi della politica estera. Ciò indebolisce la nostra posizione negoziale e indebolisce l’intera postura del Paese.

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