Matteo Renzi ha deciso: lascia il PD. Lo lascia, come è sua abitudine, nel modo e nel momento meno opportuni.
Non ha partecipato mai a un singolo incontro del suo partito da quando non è Segretario. Non ha mai portato le sue ragioni nelle sedi adeguate. E oggi, proprio dopo aver fatto il salto triplo carpiato dal #senzadime al #conte, se ne va con una intervista a La Repubblica: elegante!
La cosa era nell’aria da un anno abbondante. La sconfitta del 4 marzo 2018 non la imputava ai suoi tanti – tantissimi – errori, ma al fatto che il PD era litigioso. Da segretario dimissionario ha fatto saltare senza nemmeno un minimo di confronto interno la discussione con il M5S per la creazione di un governo giallo-rosso. Una mossa dettata da tutto, tranne che da genuine ragioni politiche.
A causa di quella mossa abbiamo dato al Paese il peggior governo possibile, e forse uno dei peggiori di sempre. No, era evidente pensasse che il problema era il PD. Non poteva essere lui. Lui, che si è intestato sempre e solo le vittorie, anche quando non erano sue. Lui, con la fissazione per il 40%. Dalle europee 2014, che abbiamo preso con un PD unito, compatto – ma lui lo dimentica – e il 40% al Referendum Costituzionale che era, secondo Renzi, “suo”. Era un 40% di popolazione con lui. Salvo poi vedere che nemmeno la metà di quel 40% aveva votato per il PD con lui candidato premier. La verità è questa.
Ma niente, arriviamo alla creazione del governo giallo-rosso con un anno di ritardo e Renzi spinge per un governo con il M5S che sia di scopo: duri il minimo indispensabile per togliere Salvini dal ministero degli interni, farci fare una manovra lacrime e sangue, e poi staccare la spina. Così il PD si prendeva la responsabilità di un disastro annunciato e lui aveva raggiunto il suo obbiettivo, sfiaccare definitivamente il PD per prepararsi alla mossa che attendeva da tempo: la scissione.
Ma Nicola Zingaretti gli ha rubato la palla e ha fatto una giocata migliore della sua. Ha ottenuto un governo con basi politiche solide sia numeriche a Camera e Senato, sia nel programma, con temi radicalmente diversi da quelli portati avanti negli ultimi 14 mesi dai giallo-verdi. Renzi non poteva perdere l’occasione di riprendersi un po’ di riflettori e anticipa la mossa: prima doveva essere data comunicazione alla Leopolda, poi sceglie di fare un’intervista a Repubblica.
Renzi ha tentennato fino ad ora per un motivo molto semplice: serviva tempo per vedere le mosse del PD con Zingaretti, raccogliere le risorse necessarie a far partire la macchina organizzativa – e da qui il boom dei versamenti in agosto da elette/i ai comitati civici, le cellule del nuovo partito di Renzi già attive da parecchio tempo – e organizzare le truppe al Parlamento.
Non crediate che la cosa sia finita qua. No. Al Parlamento, creando i gruppi a camera e senato otterrà le risorse economiche pubbliche previste per i gruppi costitutiti. Molti soldi. Molti. E questo sarà ciò che servirà per dare realmente vita al partito di cui ora non sappiamo il nome.
Ho letto l’intervista di Matteo Renzi molto attentamente. Mi colpisce, ancora, la totale mancanza di autocritica. La retorica è sempre la stessa: la colpa è degli altri, delle situazioni contingenti, mai sua. Mai delle scelte politiche sbagliate fatte. Mai. E per altro afferma di lasciare – badare bene all’uso del verbo – a Zingaretti la maggioranza dei gruppi parlamentari. Così da togliergli l’alibi di dire che non li controlla. Una palese bugia e una minaccia.
Il verbo “lasciare” indica una volontà: ti lascio la maggioranza. Significa che Zingaretti non la ha realmente. Infatti, molti dei fedelissimi della prima ora, da Guerini a Lotti, ma non solo, restano ai loro posti. Non lasciano il PD. E non è una scelta di principio. Ne sono certo. E’ mera strategia. Una tecnica vecchia: una sorta di cavallo di troia post-moderno.
Renzi lascia il PD per inseguire più la sua brama di potere solitario – o comanda lui e tutti obbediscono, o non va bene – che per dare al Paese un sostegno, una proposta politica alternativa. E lo fa con un grande disrispetto per la comunità politica del PD. Che lo ha portato dove si trova e come lui altre ed altri.
Il pericolo per il PD e per Zingaretti ora è di dover combattere una battaglia su almeno tre fronti:
1) Renzi in Parlamento che muove un gruppo di elette/i esterni al PD (e pure nel governo), ma allo stesso tempo esercita ancora un controllo o un’influenza su alcune/i rimasti volontariamente nel PD per fare da ponte tra lui e noi, e influenzare le scelte politiche del partito in un senso o in un altro;
2) Renzi fuori dal Parlamento, che se l’esperienza PD-M5S va male può capitalizzare strappando – o così lui pensa, ma credo che avrà un’amara sopresa in questo – un po’ di consensi a Forza Italia con un Berlusconi ormai inesistente e un partito sfiaccato ovunque, e dal PD stesso specie in certe zone del Paese dove la sua presa è più radicata (Toscana, Umbria per fare due esempi).
3) gli attacchi della Lega e dell’altro Matteo, Salvini, che con tutti questi giri di potere, macchinazioni di palazzo avrà gioco facile a delegittimare il governo, con un M5S ridotto ai minimi termini e con una potente crisi di credibilità (l’unica moneta che aveva) e con il PD spaccato; ma anche Renzi che appare oggi più che mai come un personaggio politico spregiudicato.
Quello che mi sento di dire, a conclusione di questa riflessione, è che spero nella lungimiranza delle elettrici e degli elettori del PD. Che anche chi ha sostenuto Matteo Renzi e la sua linea politica non lo segua. Si tratta d’un questo percorso opportunistico e privo di ogni parvenza di genuinità. Non sono le idee a muovere il tutto, ma gli interessi, i tatticismi e l’opportunismo di elette ed eletti, quelli messi in modo ben ponderato nelle ultime liste sulla base del principio di fedeltà e di propensione all’obbedienza.
Ecco, ci meritiamo una classe dirigente migliore, più onesta, capace e seria. Spero che questa mossa produca l’effetto che solitamente produce una scissione politica in Italia: spingere chi la compie all’irrilevanza. L’unità è stata chiacchierata, ma gli sforzi per realizzarla sono stati tantissimi dal 2013 in poi, avendo vissuto in prima persona molte delle vicende interne al PD, sento di poterlo dire con tranquillità.
Zingaretti e il PD hanno ora davanti una grande, difficile, sfida. Come elettore, militante e dirigente politico locale, per quanto io poco possa fare, voglio assicurare al mio partito il mio sostegno. Voglio farlo per dare al PD la possibilità di riscatto che merita. Ma soprattutto per garantire al Paese una prospettiva di sviluppo vero, di miglioramento, di crescita sociale e politica, non solo economica. Sta a noi, nei nostri rispettivi ambiti di lavoro, impegno sociale, studio, attivismo, contribuire alla creazione di questa alternativa.
Resto nel PD, anche davanti all’ennesimo terremoto. Resto per dare una mano. E spero, credo, in tante e tanti faranno lo stesso. Il PD andrà avanti e si migliorerà. Malgrado tutto.