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Occhio, non basta ribaltare Salvini per vincere in Europa. L’analisi del prof. Capozzi

Di Eugenio Capozzi

In che modo il nuovo governo Pd/M5S guidato da Giuseppe Conte influirà sulla collocazione dell’Italia nella dialettica politica e istituzionale dell’Unione europea?

Apparentemente la risposta è semplice. L’operazione iper-trasformista “giallorossa”, infatti, è stata attuata in pieno accordo con l’asse franco-tedesco che ancora gestisce gran parte del potere comunitario, con lo scopo esplicito di tenere Matteo Salvini lontano dal governo, di minimizzare la minaccia sovranista e di recuperare l’Italia all’ortodossia europeista. E dalla Commissione vengono lanciati ora all’Italia segnali incoraggianti di possibile elasticità sul versante della spesa pubblica se il governo entrante si uniformerà in generale alle direttive di Bruxelles sul piano dei conti pubblici e delle politiche fiscali.

Tuttavia anche il più fervente “euro-obbediente” – soprattutto sul versante piddino della nuova maggioranza – sarebbe assai ingenuo a pensare che, semplicemente rovesciando la linea salviniana del braccio di ferro in quella “neo-contiana” dell’accordo “a prescindere”, l’Italia possa magicamente lasciarsi alle spalle i problemi di fondo sussistenti nei suoi rapporti con l’Ue. Problemi che impongono, tutti, un cambio radicale di paradigmi politici.

In primo luogo, infatti, occorrerebbe spezzare quel circolo vizioso per cui è impossibile avviare seriamente il risanamento del debito pubblico italiano senza politiche coraggiose di choc fiscale e investimenti infrastrutturali che inneschino una nuova, consistente crescita economica, ma queste politiche sono impossibili a causa dell’altissimo debito che impone una adesione stringente ai parametri del rapporto deficit/Pil imposti dalla Commissione.

In secondo luogo, l’emergenza dell’immigrazione illegale non può certo essere archiviata con una revisione del trattato di Dublino che imponga – ma come? Con quali criteri? Con quali garanzie? – una redistribuzione dei sedicenti “profughi” tra i Paesi aderenti. Soltanto severe politiche comuni di smantellamento della catena tra trafficanti di uomini e Ong, o addirittura blocchi navali gestiti in comune, potrebbero avere qualche chance di arrestare – e non soltanto “spalmare” – un flusso biblico e crescente che sta già ponendo drammaticamente in crisi la convivenza civile in gran parte dell’Unione, e rischia ogni giorno di più di farla implodere.

Infine, più in generale, il nuovo governo italiano non può sperare che il suo “europeismo” dichiarato possa assicurare da solo il ripristino di una entente cordiale con l’Ue, senza porre comunque la questione di un riequilibrio di potere effettivo tra gli Stati nelle istituzioni comunitarie, essenziale alla gestione di nodi essenziali come la politica estera, il fisco, la Banca centrale.

Non del tanto vituperato “sovranismo” qui si tratta, ma semplicemente di sovranità, nel senso della sovranità popolare: sia quella rimasta agi Stati membri che quella ceduta alle istituzioni continentali, ma rimasta sempre in gran parte “virtuale”. È la annosa questione del “deficit democratico” dell’Europa comunitaria. Che – ironia della politica – fino a poco più di un decennio fa è stata una bandiera tradizionale della sinistra italiana, e oggi appare da essa – come da parte di liberaldemocratici e popolari – del tutto accantonata.



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