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La lezione spagnola: quando l’instabilità politica non frena la crescita

Di Marco Bolognini

Navigare a vista. Una specialità che fu italiana, nella Prima come nella Seconda Repubblica, è oggi appannaggio anche di altri Paesi, adattatisi alle circostanze e formatisi nella nobile arte del traccheggio e della sopravvivenza.

Accade così che addirittura la Spagna della consolidata scelta bipartitica, la Spagna che vedeva – nell’alternanza tra popolari e socialisti – le uniche, realistiche possibilità di governo (magari con un provvidenziale aiutino dai nazionalisti baschi o catalani), si è dovuta piegare alle esigenze del momento, alla tendenza che rende “liquide” le appartenenze, il voto, dunque i governi. L’instabilità e le alleanze fluide, ormai sono di casa anche a Madrid.

Come è noto le elezioni politiche dello scorso mese di aprile non hanno avuto un chiaro vincitore. Potremmo dire che c’è chi ha perso di meno (il Partito Socialista) e chi ha perso di più (il Partito Popolare), però il risultato non cambia: bisogna scendere a patti per governare. E pare proprio che il dialogo tra socialisti e Podemos – l’alleato più ben disposto, almeno sulla carta – non stia procedendo in maniera fruttifera.

In questo scenario, il presidente uscente del governo spagnolo Pedro Sánchez non sarà il primo premier iberico a dover riconvocare una nuova tornata elettorale entro il medesimo anno. Due elezioni in pochi mesi. Già Mariano Rajoy, suo predecessore alla Moncloa, dovette far tornare il Paese alle urne per poter governare mettendo insieme una qualche maggioranza.

Ciononostante, la Spagna continua a crescere. Malgrais tout, si prevede che il 2020 segnerà una crescita vicina al 2%, mentre il 2019 dovrebbe chiudersi con una cifra del 2,2-2,3% (secondo il Fondo Monetario Internazionale).

Se la politica spagnola non attraversa un momento brillante, se la disoccupazione comunque è significativa, se il Paese è appena uscito dalla più grave crisi economica degli ultimi quarant’anni, cos’è allora che fa la differenza, rispetto a un’Italia stagnante, ferma, irrigidita ormai da tempo per quanto concerne gli indici di crescita?

Le risposte potrebbero essere molteplici e tutte opinabili. Atteniamoci dunque ad alcuni dati sintetici.

In primo luogo, la Spagna è stata capace di posizionarsi molto favorevolmente nei confronti di tutta l’area latino-americana. Quando la crisi colpiva duro ha esportato aziende e investimenti, e ha quindi saputo stimolare gli investimenti di ritorno non appena le cose sono migliorate.

Allo stesso tempo, è stato fatto un importante sforzo di “promozione” del sistema Paese non appena sono cominciate a suonare le (sinistre) sirene della Brexit. In questo modo Madrid si è validamente proposta come alternativa “low cost”, ma parimenti efficace in termini qualitativi, per le aziende in uscita dal Regno Unito. Così, le ottime e moderne infrastrutture, l’alto livello di preparazione del personale specializzato e i costi del lavoro calmierati, hanno contribuito in maniera sostanziale ad attirare investimenti significativi dall’estero.

Per quanto concerne, più nello specifico, il mercato del lavoro, la Spagna – già dal 2012 in poi – ha ristrutturato e ripensato le regole rendendolo più flessibile, cosa che evidentemente è piaciuta al tessuto imprenditoriale e, dopotutto, anche ai lavoratori che hanno visto aumentare le opportunità di impiego.

In ultimo, la Spagna ha mantenuto un cuneo fiscale inferiore – nettamente inferiore – a quello esistente presso altri membri dell’Eurozona, come l’Italia stessa. Secondo dati recenti dell’Ocde, infatti, la Spagna si è attestata attorno nel 39,4% nel 2018, contro il 47,9% dell’Italia. Una bella differenza, a ben vedere.

A fronte di salari mediamente simili (e non eccelsi, se paragonati ad altri Paesi più ricchi), la Spagna ha conservato una maggiore morigeratezza impositiva, che ovviamente favorisce non solo l’impiego ma anche i consumi.

Verrebbe dunque da dire, vista l’esperienza spagnola, che esistono una serie di fattori che possono fungere da stimolo per l’economia anche in situazioni politicamente critiche: un buon uso reputazionale del sistema-Paese, infrastrutture moderne, un mercato del lavoro flessibile, una fiscalità logica che non ammazzi l’impiego né i consumi.

È uno scenario utopistico per l’Italia? Di certo lo resterà se non verrà avviato, al più presto, il lungo cammino delle riforme strutturali.

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