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Trump e Ucraina: si fa presto a dire impeachment. L’analisi di Alegi (Luiss)

La maledizione ucraina torna a perseguitare Donald Trump. Dopo essere stato sfiorato dal processo a Paul Manafort, il primo responsabile della vittoriosa campagna elettorale del 2016, condannato per le parcelle pagategli dal presidente filo-russo Viktor Yanukovich, questa volta tocca alle pressioni esercitate sul nuovo presidente Volodomyr Zelensky affinché indagasse sul candidato democratico Joe Biden. Il testo della telefonata del 25 luglio, diffuso pochi minuti fa dopo polemiche infuocate, conferma le voci circolate sulla stampa. “Vorrei che ci faceste un favore”, dice Trump a Zelensky: un’indagine sul presunto furto di posta elettronica del Partito democratico americano, da svolgere in collegamento con l’Attorney General William Barr. “Si parla molto del figlio di Biden, che Biden ha fermato le indagini, e molta gente vuole saperne di più”, si legge nel documento declassificato. “Così qualsiasi cosa possiate fare con l’Attorney General sarebbe grande”. E ancora: “Vorrei che l’Attorney General chiamasse lei o la vostra gente e vorrei che andaste in fondo alla cosa. Qualsiasi cosa possiate fare, è molto importante che la facciate, se è possibile”.

Benché il testo non faccia riferimento diretto allo sblocco di aiuti militari per 391 milioni di dollari, sembra confermare il tentativo di attivare un Paese straniero contro il candidato democratico che tutti i sondaggi indicano come vincitore in un ipotetico scontro diretto con Trump. Di qui all’impeachment il passo è breve. Che la procedura in due fasi – indagini e voto sull’accusa da parte della Camera dei deputati a maggioranza semplice, giudizio ed eventuale rimozione da parte del Senato, a maggioranza qualificata – è tutto da vedere. Il motivo non è tecnico-giuridico (la procedura è tanto rara da essere sin troppo flessibile) ma politico. Perché l’impeachment è un fatto solo politico, ed è sulla politica che è naufragata la stragrande maggioranza dei casi degli ultimi due secoli e mezzo.

UN GIUDIZIO POLITICO

La decisione di aprire indagini formali nei confronti del presidente Donald Trump è tutta politica. Non nel senso partitico – o meglio, non solo in quello – ma per la natura intrinseca dell’impeachment, la procedura inventata nel 1787 per consentire al Congresso di rimuovere il presidente (ma anche il vice presidente e tutti i titolari di uffici federali) riconosciuti colpevoli di “tradimento, corruzione, o altri alti reati e violazioni”, a norma dell’articolo 2, sezione 4 della Costituzione. La clausola nasceva per bilanciare i poteri concessi al presidente. Tra le discussioni centrali della convenzione costituzionale di Philadelphia del 1787 vi era proprio quella di rendere un presidente eletto a termine una figura abbastanza autorevole da poter trattare con i sovrani senza diventare egli stesso un re. Accanto al mandato di quattro anni (a metà tra i due dei rappresentanti e i sei dei senatori), alle modalità di elezione (indiretta, tramite un collegio elettorale a difesa degli interessi degli stati), all’obbligo di cittadinanza per nascita (per evitare il ritorno del re), emerse così anche la possibilità di rimozione.

Due anni dopo, nel 1789, i francesi avrebbero scelto la ghigliottina. I padri fondatori preferirono il meno cruento impeachment della tradizione inglese. La decisione non fu unanime: per non minare la separazione dei poteri, alcuni, come il delegato del Massachussets Rufus Berry, avrebbero preferito lasciare il giudizio agli elettori, confermando la natura politica del giudizio. Alexander Hamilton rafforzò il concetto nel Federalist n. 65, spiegando che l’impeachment differiva dai reati e dalle cause perché si trattava di giudicare “il comportamento dell’uomo pubblico, o in altre parole l’abuso o la violazione di una qualche fede pubblica”.

Più che nei casi di Richard Nixon, indagato per aver mentito sul caso Watergate (ma dimessosi prima della fine del procedimento) o Bill Clinton, indagato per aver giurato il falso (ma non rinviato a giudizio), il concetto è evidente soprattutto nel caso di Andrew Johnson, che nel 1868 fu il primo presidente a incorrere nell’ira del Congresso. Nato nel Tennessee, Johnson era stato voluto da Abraham Lincoln come vice presidente quale segnale di apertura nei confronti degli stati del Sud. Portato alla Casa Bianca dall’omicidio di Lincoln, ne proseguì la linea di mediazione e pacificazione per ricostruire l’unità nazionale. Nel clima infuocato del dopoguerra, con gli stati confederati ancora sotto occupazione militare, la magnanimità permessa al nordista Lincoln suonava però come tradimento in bocca al sudista Johnson. L’impeachment alla Camera era forse inevitabile, ma il Senato non raggiunse (si pure per un soffio) la maggioranza necessaria per la condanna. Johnson finì il mandato e lasciò il posto a Ulysses Grant, il generale che aveva vinto la Guerra Civile, la cui presidenza fu segnata da vari scandali finanziari.

UNA STRATEGIA POLITICA

La possibilità dell’impeachment è emersa sin dall’insediamento di Trump. La prima pista, l’indagine del procuratore speciale Robert Mueller sull’interferenza russa nelle elezioni 2016, ha portato in carcere Manafort ma si è conclusa con un nulla di fatto per quanto riguarda il presidente. Pur avendo dal gennaio 2019 i democratici la maggioranza dei seggi alla Camera, molti deputati erano riluttanti ad appoggiare una proposta che il Senato a maggioranza repubblicana avrebbe senz’altro chiuso con un’assoluzione. Costretta a far di necessità virtù, Pelosi ha quindi passato gli ultimi mesi nel tenere a bada l’ala più battagliera del partito. La domanda da farsi è dunque perché la valutazione politica dell’Ucrainegate (o Zeleskygate, o come diavolo lo chiameremo tra poco) sia diversa da quella sul Russiagate. Un primo fattore è quello temporale. Mentre l’indagine retroattiva sulle elezioni del 2016 sembrava il tentativo di ribaltare il risultato negativo alla moviola, la strategia giudiziaria contro Joe Biden è (o può essere presentata come) un’azione preventiva che punta a tutelare l’integrità delle presidenziali del 2020.

Sempre in termini di tempo, l’inchiesta appena lanciata coinciderà con la fase più calda della campagna elettorale, mettendo Trump sulla difensiva e rendendogli più difficile battersi efficacemente contro i candidati democratici. Da questo punto di vista, non vi sarebbe alcuna urgenza di rimuovere il presidente, anzi. In ottica interna, il nemico esterno aiuta i democratici a mantenere l’unità del partito, aiutandoli a limitare i danni che potrebbero scaturire da primarie troppo vivaci. E, addirittura, trasformare Biden in una vittima di Trump potrebbe rinforzare l’ala moderata e contenere l’avanzata dei temuti radicali Elizabeth Warren e Bernie Sanders.

In termini concreti – perché talvolta in politica contano persino questi – l’allarme ucraino sembra essere trasversale. Dalla comunità dell’intelligence, per natura non un bastione della sinistra, ai sette deputati democratici con trascorsi militari, la possibilità che il presidente solleciti un’inchiesta penale sul proprio principale avversario sembra terrorizzare tutti. In termini numerici, siamo però ancora ben lontani dalle maggioranze necessarie. Alla Camera servono 218 voti, dei quali al momento ce ne sono solo 181. Per una condanna servirebbero 66 senatori, cioè 17 più di quelli oggi disponibili ai democratici. Se dovessero emergere fatti tanto negativi da compromettere le proprie probabilità di rielezione, alcuni repubblicani potrebbero volersi staccare dall’ombra di Trump, ma per arrivare a quota 17 servirebbe un terremoto politico al momento poco realistico.

Come questi fattori si combineranno è difficile da prevedere. Degli oltre 60 fascicoli aperti, sono scaturite solo otto rimozioni: tutti giudici, circa la metà dei 15 indagati. Dei tre presidenti indagati, nessuno è stato mai rimosso. La valutazione più interessante non riguarda quindi la possibilità di condanna di Trump (che, a occhio, si può stimare attorno al 5%) quanto quella di rielezione.

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