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Repressione e fake news. L’ombra della Cina su Hong Kong. L’analisi di Silvestri (Iai)

Di Stefano Silvestri

Hong Kong è un test di grande importanza strategica per la Cina e le sue ambizioni. Pechino si presenta come un nuovo grande attore internazionale bifronte: da un lato resta un regime autoritario, dall’altro ha sviluppato un’economia sempre più integrata con il sistema capitalistico. È la tesi dei due sistemi che convivono in un solo mondo, sino a convergere nel sistema occidentale. E Hong Kong è il luogo fisico che incarna questa linea strategica. La Cina, però, sembra avere molti dubbi. Ciò è probabilmente legato alla sua crescente contrapposizione con gli Stati Uniti.

Gli Usa appaiono sempre più convinti del fatto che la Cina sia il loro nuovo grande avversario, anche più pericoloso di quanto non fosse il blocco sovietico. Per cui a Pechino sembra rafforzarsi la tesi di chi pensa che la prospettiva strategica di una convergenza dei due sistemi non sia possibile. Tuttavia, una simile scelta avrebbe un costo alto, che Pechino non può certamente ignorare. Il che, forse, spiega anche perché la situazione a Hong Kong non si è ancora risolta alla stregua di piazza Tienanmen nel 1989. La crescente presenza internazionale della Cina, la sua chiara volontà di rivendicare la sua supremazia sui mari circostanti, la grande espansione commerciale, il monumentale progetto della Nuova via della seta, i forti investimenti nelle tecnologie cibernetiche e spaziali, sono chiari segnali dell’intenzione di Pechino di porsi come nuovo grande centro di potenza globale, in concorrenza con gli Stati Uniti.

Il problema è se questo avverrà in un contesto di regole comuni e di princìpi condivisi, o se diverrà un confronto ideologico e di civiltà, analogo alla Guerra fredda. In realtà, per riuscire nel suo intento, la Cina ha bisogno di alleati, in primo luogo tra i Paesi più ricchi e più forti. Oggi Pechino approfitta della crisi del soft power americano, a causa dell’erratica e neomercantilista leadership del presidente Donald Trump. Ma per consolidare questo vantaggio dovrebbe riuscire a esprimere una capacità di leadership. Deve riuscire a convincere i suoi interlocutori della bontà e viabilità del suo approccio politico ed economico.

È qui che iniziano i guai. Il regime cinese, per quanto riformato o rivisto, rimane sempre una realtà chiusa, autoritaria, riluttante ad accettare una vera liberalizzazione dei rapporti economici, lontana dall’accettazione delle regole dello Stato di diritto della tradizione occidentale, che rimane il metro di paragone più accettato. Inoltre, il sistema cinese sembra temere ogni forma di dissenso interno. La rigidità ideologica ereditata dal maoismo è stata diluita nell’economia, ma non nella politica. Per cui le manifestazioni di Hong Kong vengono lette come un pericolo.

Infine, la prospettiva di inserire pienamente nella Cina una regione a statuto politico speciale viene vista con particolare timore: il timore che altre regioni cinesi possano ambire a statuti analoghi, prefigurando così, agli occhi della leadership cinese, una frammentazione. Da fuori, questa preoccupazione può sembrare esagerata, ma la Cina è una realtà multietnica, con enormi differenze interne. Essa ha sperimentato nella sua storia i disastri della frammentazione, e spesso le potenze esterne hanno favorito tali tendenze imponendo divisione nel grande corpo cinese. Per cui Pechino vuole normalizzare Hong Kong, ma nello stesso tempo teme per la sua immagine internazionale e per il successo del suo grande disegno strategico.

La risposta provvisoria che sembra aver trovato è quella dell’imbroglio. Esercita una dura repressione a Hong Kong e allo stesso tempo favorisce la massima diffusione di fake news, prima tra tutte quella che sarebbe stato ritirato il disegno di legge sul l’estradizione, ampiamente ripresa dalla stampa occidentale. Ma questo non è un gioco che può durare a lungo, e anzi può divenire controproducente, inficiando la credibilità di ogni fonte cinese. La speranza di Pechino è forse quella che i governi e le opinioni pubbliche occidentali preferiscano notizie false alla realtà di un confronto difficile ed economicamente costoso con la Cina.

È anche possibile che raccolgano qualche successo in questa direzione. Le opinioni pubbliche di molti Paesi non sembrano del tutto partecipi del dramma di Hong Kong, forse anche perché non ha ancora “bucato” gli schermi televisivi con immagini scioccanti come quelle di piazza Tienanmen. Ma le false notizie sono una fragile barriera che può cadere in qualsiasi momento. Ciò porrebbe i Paesi occidentali, in particolare europei, di fronte a scelte difficili e in ogni caso provocherebbe una crisi dell’immagine della Cina, a tutto danno del suo soft power e delle sue ambizioni. Ma soprattutto si porrebbe il problema di quale sia realmente la linea strategica cinese, se il paradigma dei due sistemi in un solo mondo venisse a cadere.

La Cina ha approfittato enormemente della globalizzazione. Se quel paradigma dovesse essere smentito, il mondo si dividerebbe nuovamente, e ogni calcolo strategico dovrebbe essere rivisto.

(Articolo pubblicato sulla rivista Formiche N° 151)

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