Coloro che un po’ frettolosamente avevano dato per risolti tutti i problemi dell’Unione europea dopo la tornata elettorale del 26 maggio, forse cominceranno a ricredersi. Tanto per cominciare la maggioranza “europeista” uscita dalle urne non si sta mostrando né così maggioranza né così “europeista”.
Le bocciature prima della commissaria designata francese all’Industria, Difesa e Spazio, Sylvie Goulard, poi l’altro ieri del testo dell’emendamento che invitava gli stati membri a mantenere i porti aperti alle Ong, hanno sopito gli entusiasmi che si erano creati attorno al nuovo Parlamento e alla nuova presidente della Commissione. Tanto che lo stesso ambizioso programma di rigenerazione spirituale dell’Unione e di riconversione, anche industriale, sotto le insegne di un green new deal sembra oggi aver perso quella spinta propulsiva che Ursula von der Leyen aveva sicuramente impresso solo due mesi fa.
I due episodi sono stati un duro richiamo alla realtà: da una parte al peso conflittuale che hanno gli Stati, con i loro interessi nazionali specifici, all’interno di una costruzione che si vorrebbe universalistica e autenticamente sovranazionale; dall’altra, anche al peso che continuano ad avere, e che non può certo essere considerato marginale, le tematiche “sovraniste” e “populiste” di difesa dell’identità e di controllo dell’immigrazione. Nel primo caso, l’affronto è stato direttamente fatto ad Emmanuel Macron dal partito popolare tedesco, che mal aveva digerito la decisione francese di non rispettare il dispositivo “democratico” dello Spitzkandidaten; nel secondo, sono venuti meno, in un rigurgito “populista”, sia la compattezza dei popolari sia proprio quei voti italiani dei Cinque Stelle che avevano permesso a von der Leyen di accedere al seggio più alto di Bruxelles. Il fatto poi che i Verdi restino fuori di una maggioranza che si dice “ambientalista”, mostra quasi in senso paradossale le profonde contraddizioni che segnano questo assetto di potere.
Quasi a mettere una ciliegina sulla torta, il presidente Macron ha poi proposto al posto del commissario precedentemente designato e sonoramente respinto un uomo, il top manager Thierry Breton, che fa saltare tutto il meccanismo della parità di genere su cui von der Leyen aveva costruito l’immagine e la retorica del suo governo. In questo contesto, anche la voce grossa e l’intransigenza di cui Bruxelles fa sfoggio nei confronti di Boris Johnson e della sua idea di deal o no deal, perde molto del suo mordente e fa sorgere il dubbio che per il Regno Unito uscire da questa Unione europea possa non essere un affare così sconveniente come si è presentato.
L’impressione di chi scrive è che l’Unione europea potrà cominciare a superare le sue contraddizioni solo se ci si convince che essa non può essere costruita contro la volontà dei popoli, secondo un mero disegno “ingegneristico” di élite più o meno “illuminate”. Errato è però pensare che questa volontà, una volta espressasi in seggi parlamentari, possa affermarsi sottraendosi dal gioco parlamentare e dalla capacità politica di sapersi inserire con successo nelle contraddizioni in atto. Quella che manca in sostanza, in Europa e nei singoli Paesi, è una classe dirigente all’altezza dei compiti, sia fra le forze di maggioranza sia all’opposizione.