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Con Haftar non si può trattare. L’appello al governo di Fasanotti, Mezran e Varvelli

Di Federica Saini Fasanotti, Karim Mezran, Arturo Varvelli

Mentre la comunità internazionale si appresta a organizzare a novembre in Germania l’ennesimo vertice sulla Libia, la situazione sul campo rende ogni giorno più evidente quanto Haftar non possa essere considerato l’uomo giusto per i problemi libici. Ciò lo si intuisce chiaramente dal fallimento dell’attuale azione militare in Tripolitania, sebbene sarebbe bastato analizzare le sue mosse negli ultimi cinque anni – un’eternità se solo volessimo azzardare qualunque tipo di confronto con i cinque giorni della rivoluzione gheddafiana – per comprendere a fondo il personaggio. La storia ci insegna che nulla rimane uguale, eppure il passato molto ha da insegnare.

Le azioni di Haftar, uomo di Gheddafi passato alla causa anti-regime, nei primi anni della rivoluzione del 2011 sono nebulose, ma certamente si chiariscono nel 2014, quando tenta un golpe militare in televisione che viene subito smentito – e irriso – dal primo ministro libico di allora, Ali-Zaydan. Nel maggio di quello stesso anno, Haftar lancia l’Operazione Dignità (Karama in arabo) ufficialmente contro tutte le milizie di Bengasi definite “radicali” – e poco importava che alcune fossero moderate – e, allo stesso tempo, contro il parlamento libico a Tripoli, accusato di avere al suo interno pericolose cellule islamiste. L’azione ottiene subito il supporto di Emirati Arabi Uniti ed Egitto. E proprio l’Egitto del generale Al-Sisi lo appoggia nella sua nomina a ministro della Difesa e capo di stato maggiore della House of Parliament, spostatasi a Tobruk, in Cirenaica. Da allora, passo dopo passo, circondandosi di fedelissimi e dei suoi quattro figli, ha attraversato la Libia, arrivando alle porte di Tripoli. Commettendo però un errore dopo l’altro e lasciando intravedere una caratura militare e politica non all’altezza della situazione.

Haftar non ha mai voluto spartire il potere con nessuno, nonostante abbia accettato di stringere la mano più di una volta al suo antagonista, Fayez al-Serraj, primo ministro del Governo di accordo nazionale, nato in seguito agli accordi di Skhirat, voluti dalla comunità internazionale e accettati da buona parte degli stessi libici. E non importa che il presidente francese Macron le abbia tentate tutte – ovviamente facendo bene i suoi calcoli – per appacificare i due che più si vedono, più non si sopportano. Ecco allora le due conferenze di Parigi – il 25 luglio 2017 e il 29 maggio 2018 – per mettere d’accordo i due contendenti nell’ottica di nuove elezioni sotto il vessillo della democrazia, quella stessa democrazia per la quale, secondo Haftar, i libici non sono assolutamente maturi1. Ma questo è un particolare a cui né Macron, né gli altri attori internazionali hanno dato il minimo peso, continuando con una serie di conferenze inconcludenti – Palermo nel novembre 2018 e Abu Dhabi nel febbraio 2019 – e che, viceversa, hanno concorso a indebolire il ruolo di Unsmil e del suo inviato, Ghassan Salamé.

Non solo: se analizziamo la cronologia dei fatti accaduti dopo ognuno di questi consessi internazionali, è facile comprendere quanto questi siano spesso risultati come forzature dannose al percorso di riconciliazione. Le due conferenze di Parigi hanno prodotto l’insurrezione delle milizie tripoline che, escluse da una qualsiasi forma di rappresentanza al vertice, non hanno tardato a farsi sentire per le vie della capitale, come avvenuto in maniera eclatante tra agosto e settembre 2018. E come se non bastasse, dopo “il compromesso” tra Serraj e Haftar ad Abu Dhabi, il maresciallo di campo esattamente un mese dopo ha deciso di muovere guerra a colui al quale aveva stretto la mano, davanti ai soddisfatti dignitari emiratini, probabilmente sentendosi ingabbiato in un compromesso che in realtà aveva accolto solamente per facciata.

Tutta questa serie di incontri, tenuti all’estero per motivi di sicurezza, oltretutto ha sempre avuto una scarsa credibilità all’interno del paese che dal momento che non sono percepiti come rilevanti dalla popolazione libica. Vi è da chiedersi quindi come mai la comunità internazionale, e in particolare il nostro paese, continui, pur appoggiando Serraj, a strizzare l’occhio ad Haftar e perché continuino ad essere organizzate conferenze – non ultima quella paventata a Berlino – che non hanno mai prodotto alcun risultato.

Bisognerebbe guardare la situazione con più realismo. Haftar si è messo con le proprie mani in un vicolo cieco. Se anche dovesse avere il sopravvento nella guerra fratricida che ha iniziato, cosa assai improbabile al momento, è chiaro che a Tripoli non verrà mai accettato, e questo significa avere una fronda ribelle di 2,5 milioni di persone almeno. Bisogna in realtà pensare a una soluzione politica diversa, che tenga conto della frammentazione del potere in Libia ma anche della necessita’ di mantenere un collante nazionale. A tal fine è allora preferibile la via della Conferenza di unità nazionale, sul tipo di quella che si doveva tenere in aprile e poi fatta saltare dall’attacco di Haftar contro Tripoli.

Ma prima di tutto bisognerebbe rompere l’impasse della situazione militare a Tripoli. Le due parti sono in stallo e solo il successo di una parte verso l’altra puo’ creare le dinamiche per la realizzazione di un vero negoziato che realmente possa risolvere il problema della polarizzazione del Paese e ricongiungere le varie parti verso un progetto di stabilizzazione e ricostruzione dello stato Libico. Gli stati sostenitori di Haftar dovrebbero prendere coscienza che il suo attacco a Tripoli e la condotta della guerra fino ad oggi non costituiscono solamente un crimine contro la popolazione libica ma anche di come la sua incapacità militare stia danneggiando gli stessi interessi dei supporter internazionali: Haftar non ha ormai più alcuna chance di vincere “i cuori e le menti” della gente. Se questa presa di coscienza fosse seguita da azioni volte a cambiare la leadership del Lna e a renderlo più rappresentativo almeno delle richieste dei cittadini cirenaici, alcune peraltro giustificate, allora si avrebbero condizioni migliori per il negoziato.

Non è credibile ripartire dal percorso di Abu Dhabi come se nulla fosse. E’ inutile pensare ad un negoziato in Libia che veda un leader tripolitano sedersi ancora con Haftar a trattare: ne andrebbe molto probabilmente della sua incolumità fisica. Il governo italiano dovrebbe comprendere questa situazione meglio di altri e agire con coraggio e determinazione, usando tutti gli asset a disposizione per sostenere con maggiore convinzione le ragioni del Gna (che non sono quelle personali di Serraj) e la difesa della popolazione di Tripoli contro l’aggressione di un aspirante dittatore che, peraltro, non si fa scrupoli a bombardare lo stesso aeroporto di Misurata in cui alloggia un ospedale militare italiano. Una posizione di sostegno più decisa al Gna faciliterebbe il percorso di isolamento politico di Haftar che, messo alla prova più di una volta, ha dimostrato di non essere all’altezza della situazione.


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