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Il governo rilanci l’industria, con investimenti e cura dei lavoratori. La versione di Donegà (Fim-Cisl)

Di Andrea Donegà

Viviamo un periodo molto delicato e decisivo in cui comincia, tra notizie, “sparate” e smentite, a prender forma la manovra economica che avrà il compito di rimediare ai conti sballati ereditati dal precedente governo, per metà ancora in carica, e soprattutto di imprimere al Paese un cambio di passo che dovrà, inevitabilmente, camminare sulle gambe del rilancio industriale. Questa sarebbe la vera svolta. Finora, purtroppo, al netto del positivo tavolo di confronto avviato con Cisl Cgil e Uil, non possiamo registrare, da punto di vista industriale, azioni in discontinuità col recente passato. È anche per questo motivo che Fim, Fiom e Uilm hanno messo in campo, oggi, due ore di sciopero, per richiamare imprese, governo e Parlamento alle loro responsabilità davanti all’emergenza delle troppe crisi industriali e occupazionali senza soluzione, al rilancio degli investimenti pubblici e privati, alla riforma degli ammortizzatori sociali e al rafforzamento della tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Gli scricchiolii nella Lombardia metalmeccanica, che conta 500.000 addetti divisi nelle oltre 40.000 imprese, dalle multinazionali alle aziende artigiane, iniziano a farsi sentire e a far traballare il settore. L’osservatorio della Fim-Cisl Lombardia ha infatti registrato dati fortemente negativi che segnano un aumento del 71% dei lavoratori collocati in cassa integrazione rispetto al 2018, ovvero 16.502 tute blu coinvolte rispetto alle 9.647 degli ultimi sei mesi del 2018, e un’impennata spaventosa, pari al 189%, dei licenziamenti collettivi, a conferma che diverse imprese hanno esaurito la possibilità di utilizzo degli ammortizzatori sociali conservativi e non riescono a trovare la strada per una ripresa produttiva e occupazionale.

A far tremare il tessuto industriale italiano, però, non è solo la mancanza, fino ad ora registrata, di interventi in grado di risollevare il lavoro e rilanciare l’industria, ma è l’accavallarsi di situazioni sfavorevoli che soffocano la produzione industriale, creano incertezza e bloccano gli investimenti, in una spirale che, se non invertita, rischia di trascinare la nostra industria in una nuova profonda crisi che potrebbe inghiottire migliaia di posti di lavoro, anche in Lombardia; pensiamo al rallentamento della Germania, alla frenata dell’automotive e alla guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, con buona pace dei sovranisti nostalgici di politiche medievali. L’industria metalmeccanica lombarda è, infatti, fortemente proiettata verso la Germania dove esporta semilavorati, macchine utensili e componentistica auto che, nello specifico, stando ai dati Prometeia-Intesa San Paolo, rappresenta il 20% del totale presente nell’industria dell’auto tedesca. Il metallurgico rappresenta il 30% e la meccanica il 18% circa, numeri che fotografano in modo limpido la lunghezza della frenata che dovremo evitare si trasformi in incidente. Germania e Italia hanno un mercato parallelo e integrato e quando cala la produzione tedesca ne risente anche quella italiana in termini di contrazioni produttive, riduzione della visibilità degli ordinativi, problemi occupazionali e aggravi, ancora una volta, per la produttività. Molti posti di lavoro italiani, quindi, dipendono, quasi direttamente, dalla solidità dell’economia tedesca che, tra gennaio e agosto 2019, ha visto contrarsi di 4 punti percentuali la propria produzione industriale. Per meglio comprendere la situazione, va anche ricordato che nel 2018 l’Italia ha esportato in Germania 58 miliardi che corrispondono al 12,6% dell’export totale registrando, anche, un interscambio record di 128 miliardi, 90 dei quali sono stati realizzati nelle regioni del nord tra le quali la Lombardia i cui prodotti manifatturieri rappresentano il 97% dell’export regionale.

Inoltre, alla faccia dei sovranisti anti-euro, il 57,5% dell’export italiano avviene all’interno della UE e dunque lo stato di salute di questa area interessa direttamente i nostri lavoratori e le nostre imprese.

Secondo Unioncamere Lombardia, inoltre, il numero delle imprese in contrazione superano quelle che avanzano, 43% le prime contro il 40% delle seconde a cui aggiungere il 17% di quelle stazionarie che occorre, certamente, spingere nella parte alta della classifica puntando, poi, a recuperare anche quelle che faticano, senza dimenticare tutta la filiera delle micro imprese dell’artigianato, quasi sempre mono committenti, legate al destino della grande industria. Un quadro che rischia di peggiorare se leggiamo i dati dell’Istat che certificano, a settembre, un calo di 32.000 occupati che fanno salire il contatore dei posti di lavoro persi, da luglio, a 61.000 certificando l’esaurimento delle performance positive del primo semestre. Infatti, le ore di produzione nelle imprese metalmeccaniche stanno calando e chi non utilizza cassa integrazione sta riducendo le turnistiche, dopo aver bloccato da tempo gli straordinari, sta facendo smaltire le ferie e non sta rinnovando i contratti a termine in scadenza a dimostrazione che le prospettive sono ancora molto incerte e che i volumi si stanno contraendo. Il precedente Governo aveva messo le ganasce alle ruote dell’economia e dell’industria italiana. Quello attuale, invece, sta sacrificando, sull’altare della paura del ritorno alle urne, quella capacità progettuale in grado di di traghettare il Paese fuori dal pantano che ci siamo creati, per buona parte, da soli. Se non si torna a investire sull’industria, rimettendola alla guida della ripresa e dello sviluppo, ogni discorso su pensioni, riduzione delle tasse e miglioramento del welfare rischia di restare nel cassetto dei desideri: meno opportunità di lavoro ci saranno, più avanzerà la desertificazione industriale, meno contributi avremo per sostenere tutto lo stato sociale e maggiori saranno le possibilità di trascinare verso il basso il sistema paese, condannandolo a produzioni a basso valore aggiunto, a scarso contenuto tecnologico e a bassi salari.

Questa deve essere la priorità della politica soprattutto tenuto conto che in Italia è in corso un terremoto demografico, come ci ricorda il professor Alessandro Rosina: “Il pilastro portante è costituito dalle età centrali adulte, quelle che maggiormente contribuiscono alla crescita economica e al finanziamento del sistema di welfare pubblico. La denatalità italiana ha prima ridotto la popolazione infantile, poi quella giovanile e ora sta iniziando a erodere sempre più anche le età adulte. Le classi centrali lavorative andranno progressivamente a indebolirsi come mai in passato. Il rischio è quello di veder indebolire progressivamente il pilastro produttivo del Paese per il combinarsi di un basso peso demografico con una bassa partecipazione effettiva al mercato del lavoro. È il tempo di prendere consapevolezza del fatto che il problema non è tanto il lavoro che manca ai giovani, ma la presenza qualificata delle nuove generazioni che sta diventando sempre più scarsa nei nostri processi di produzione di ricchezza e benessere”.

È anche per questo che siamo allarmati per i 160 tavoli di crisi aperti al Ministero, per l’incapacità politica di trovare soluzioni a queste crisi industriali e per la straordinaria abilità, invece, nell’ingarbugliare situazioni che sembravano risolte con accordi vincolanti per lavoratori, imprese e Governo e che invece vengono rimangiati dall’ingordigia elettorale che divora il futuro. È il caso, ad esempio, di ArcelorMittal (ex Ilva) dove il processo di ambientalizzazione e di rilancio produttivo rischia di fermarsi impattando tantissimi posti di lavoro e mettendo in difficoltà tutta la filiera produttiva, anche lombarda, nell’approvvigionamento di acciaio, favorendo i mercati extra europei. E mentre la Germania sta investendo decine di miliardi in ricerca e sviluppo e nel rilancio dell’industria, l’Italia prosegue nei litigi su singoli provvedimenti che assomigliano più a piccole bandierine per segnare vuote conquiste di partito, molto lontane dall’essere quel progetto organico in grado di guidare anche le transizioni tecnologiche, digitali e ambientali di cui il Paese ha disperatamente bisogno e che potrebbe aumentare le occasioni di lavoro. Le misure del Governo devono puntare alla ripartenza degli investimenti, congelata fino ad oggi dalla troppa incertezza economica, finanziaria e politica e da imprenditori troppo rinunciatari, a politiche espansive per stimolare la domanda interna, al rilancio della competitività delle nostre imprese, riducendo il cuneo fiscale, sbloccando le infrastrutture e liberandoci delle zavorre burocratiche che saccheggiano la produttività delle imprese drenando risorse a investimenti e ai salari. Occorre anche occuparsi, in modo serio e innovativo, della cura del ciclo di vita delle competenze del capitale umano presente nell’imprese, una responsabilità necessaria per garantire futuro all’industria in un contesto di profondi e inediti cambiamenti, temi che saranno al centro di una grande iniziativa della Fim che si terrà a Roma il 6 e 7 novembre. La tecnologia creerà opportunità per aumentare il capitale umano industriale, con una spinta propulsiva per tutto il sistema Paese.

Vanno anche favorite misure e iniziative che agevolino la crescita dimensionale delle imprese che consentirebbe alla nostra industria di avere adeguati mezzi economici e classe manageriale per darsi una struttura organizzativa all’altezza delle sfide dell’industria 4.0, di avere più facilità nel raggiungere mercati lontani e inserirsi, meglio, nella catena globale del valore e in supply chain più lunghe con benefici sia in termini di competitività che di occupazione. La contrattazione territoriale e aziendale può favorire sia questa transizione sia l’innalzamento del livello delle relazioni industriali con conseguente miglioramento per le imprese e crescita della classe dirigente, sia manageriale che sindacale, in grado di far partire un volano economico che sarebbe decisivo per le sorti del Paese.

Serve, infine, favorire i percorsi di accesso alla digitalizzazione delle imprese, di qualunque classe dimensionale. E qui, entra in gioco anche il ruolo dell’Unione Europea che deve giocare un ruolo fondamentale per conquistare indipendenza tecnologica e capacità di mantenere il controllo delle tecnologie indispensabili per lo sviluppo, il benessere e la ricchezza, recuperando il gap con Stati Uniti e Cina. La capacità di avere leadership sul digitale coinciderà anche con il benessere industriale, una sfida che non possiamo mancare.

Il 5 novembre inizierà la trattativa per il rinnovo del Contratto Nazionale che dovrà essere l’occasione, da non sprecare, per rilanciare le relazioni industriali e trovare soluzioni efficaci e coraggiose in uno scenario di grandi cambiamenti che abbiamo il dovere di trasformare in grandi opportunità.

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