Il tema della stabilità e della sicurezza nel Mediterraneo è da alcuni anni una priorità che l’Italia ha posto al centro del confronto interno all’Alleanza atlantica. La realizzazione dell’Hub Nato per il Sud di Napoli è stata una delle risposte concrete messe in campo in tempi recenti. Ma nel Mediterraneo non esistono sono problemi tradizionali relativi alla sfera della sicurezza e alle crisi in atto in alcuni paesi da anni. Secondo Alessandro Politi, Direttore della Nato Defense College Foundation, una delle cause principali delle crisi presenti da cui originano le minacce più significative deriva dalla fragilità dei governi dell’area mediterranea. E la Nato ha la necessità di fare i conti, con questo problema, oltre che con un’accresciuta presenza russa e cinese.
Politi, negli ultimi anni, anche grazie all’Italia, la Nato ha aumentato la propria attenzione al Fronte sud, ovvero all’area del Mediterraneo e Medio Oriente. Quali sono, a suo avviso, le minacce più consistenti presenti in quest’area?
La Nato ha vissuto al suo interno un dibattito interno tra i fautori della minaccia orientale e quelli che sottolineavano la minaccia meridionale già da prima del vertice di Varsavia. È evidente che la presenza russa e la crisi ucraina hanno reso la vita più facile a chi sostiene la necessità di una forte presenza Nato sul fronte orientale. Invece, volgendosi a sud, la Nato ha più difficoltà a mettere a fuoco con precisione quali sono le principali minacce, anche perché oggettivamente le cose sono e appaiono più complesse e confuse. C’è una serie di fenomeni e di eventi, come crisi politiche, dislocazioni strategiche, sconvolgimenti sociali, terrorismo, pressione migratoria, e diversi conflitti conclamati come Siria, Libia, Yemen o di attori pericolosi, che in realtà è sono più facili da rappresentare di quanto non si pensi. Invece molto più complicato da comprendere e da chiarire è il problema della fragilizzazione dei governi di quest’area. In tutto il vasto arco geografico che va dalle coste nordafricane dell’Atlantico fino al Medio Oriente e all’Asia Centrale noi assistiamo a questo grave problema della fragilizzazione di governi o regimi che minaccia la stabilità di tutta l’area, proprio perché spesso non vi è uno stato moderno.
Può approfondire?
La stabilità strategica e politica non è un problema nuovo per la Nato, questo problema tradizionale viene affrontato dalla Nato, come dalla comunità internazionale, con sistemi e strumenti già rodati, vecchi come il problema stesso. Oggi invece la stabilità non è compromessa da un governo aggressivo, ma spesso dalla debolezza dei regimi: le nuove sfide che la Nato deve affrontare (governi in stallo politico, guerre civili o a bassa intensità, reti criminali organizzate, traffici illegali, tra cui quello di armi di distruzione di massa, e, da ultimi per importanza, terrorismo e migrazioni). Tutte le crisi più significative e gravi che interessano l’area mediterraneo-mediorientale si ricollegano spesso a questo fattore principale
Oltre a queste minacce e crisi, è possibile ritenere che la Nato abbia aumentato nel corso degli ultimi anni la propria attenzione verso il Mediterraneo anche in conseguenza di un’accresciuta presenza di Russia e Cina?
La Nato nel corso degli ultimi anni ha lentamente preso coscienza dell’importanza del Mediterraneo, dopo aver creato molti lustri fa il Dialogo Mediterraneo e l’Iniziativa di Cooperazione d’Istanbul. Basti pensare che il Segretario Generale Stoltenberg ha visitato solo la Giordania, mentre ha effettuato visite in altre aree del globo come nel Pacifico e in Oceania. Per ora il segretario generale non è andato in nessun altro stato del Mediterraneo. I citati partenariati, che sono uno strumento molto utile nel rapporto con i paesi dell’area, sono ancora poco finanziati e andrebbero rilanciati perché sono fondamentali. L’attenzione verso il Mediterraneo è indubbiamente aumentata grazie all’attività svolta dai paesi della Regione Sud, come l’Italia, che hanno messo questo tema al centro del dibattito e anche perché in quest’area ci sono interessi americani, in Medio Oriente, e francesi, in particolare in Nord Africa e Sahel. Questi elementi hanno reso possibile un maggiore interessamento della Nato verso sud. Quanto alla presenza russa nell’area, sembra molto forte, ed è effettivamente importante, ma in realtà è tornata ai livelli dei tempi in cui nella stessa area insistevano gli interessi e la presenza dell’Unione Sovietica. La Siria è rimasta in orbita russa, come in passato ai tempi di Hafez el Assad, il padre dell’attuale rais di Damasco, era nell’orbita sovietica. Peralcuni decenni la Russia è rimasta fuori, adesso è tornata.
E la Cina?
Per quanto riguarda i cinesi, invece, assistiamo ad una presenza più morbida, ma che non è nuovissima. Perché la presenza cinese nei paesi mediterranei è andata aumentando progressivamente nel tempo con l’aumento d’interessi e traffici commerciali di quel paese in questo mare. Nel 2004 nel volume Nomos e Khaos di Nomisma io stesso ho evidenziato come ormai il Mediterraneo fosse diventato Cindoterraneo, perché divenuto ormai il terminale di merci, navi, capitali, che passando attraverso Suez, partivano dai porti situati in Cina, India, Indocina, Golfo ed Africa e giungevano attraverso il Canale di Suez sino a Gioia Tauro ed in Europa. Per molto tempo gli analisti non si sono accorti della presenza cinese in quest’area perché essa era solo commerciale, ma si tratta di una presenza molto rilevante, che comincia a svilupparsi gradualmente dal 2001. Basti pensare che in conseguenza delle primavere arabe del 2011, mentre il caos montava, furono evacuati dalle aree di crisi circa 10.000 cittadini cinesi. Questo per dare un’idea di quanto fosse cresciuta la presenza cinese in questi paesi, senza che nessun analista lo avesse segnalato fino al 2016. Da quell’anno la presenza cinese, che ha una forte natura economica e politica, e molto più debole sul piano militare, ha iniziato ad essere segnalata con attenzione. Oggi però la Cina è penetrata non solo in molti paesi della sponda sud o dell’Africa attraverso i suoi investimenti e le sue iniziative politico-economiche, ma anche alcuni paesi nel Centro-Europa, alcuni governi alleati, guardano con interesse alla relazione con la Cina, ovviamente per ragioni finanziarie e commerciali.
Per tornare alla presenza russa nell’area, ci sono differenze rispetto al passato o si può dire che oltre alle dimensioni sia simile anche negli strumenti e nei rapporti?
Ci sono differenze. La novità rispetto al passato non è nella presenza, come ho detto prima, ma in alcuni modi in cui si manifesta. Il fatto rilevante, oggi, è che la Russia ha creato un triangolo di relazioni e d’interessi con Iran e Turchia non banale, impensabile ai tempi della Guerra fredda, quando all’Urss Turchia e Iran non guardavano affatto. Si tratta di un triangolo di rapporti più politico che militare in senso stretto, ma è evidente che questi rapporti con Iran e Turchia non possono considerarsi secondari. Se poi aggiungiamo il tema del gas russo e gl’interessi russi intorno al tema energetico e la presenza in quest’area di vecchi e nuovi produttori d’idrocarburi, si capisce bene quanto tutto il contesto sia complesso e la presenza russa rilevante.
A questo proposito, il tema della sicurezza energetica, anche nell’area del Mediterraneo, ha avuto una rilevanza crescente negli ultimi anni, anche per il ruolo russo nel settore energetico. Che importanza riveste?
Non è un problema in sé nuovo, del resto gli europei contrattarono il passaggio dei gasdotti sovietici già negli anni 80. Allora gli Stati Uniti tentarono di opporsi a questi accordi, poiché si ritenevano che poi i paesi europei sarebbero stati ricattati, cosa che in realtà non è avvenuta per tutta la Guerra Fredda. Più di recente accadde che alcuni paesi (Polonia ed Ucraina) rimasero tagliati fuori da questo passaggio per motivi di disaccordo politico con la Russia, il che ha creato tensioni intorno al ruolo dominante di Gazprom ed alla sicurezza degli approvvigionamenti. In realtà le forniture di gas sono un’arma a doppio taglio: è chiaro che esiste una dipendenza del consumatore, ma in realtà il mercato è in mano a chi compra. La Russia può vendere ed è leader nel mercato gasiero, ma in 20 anni, durante tutta l’era Putin, non ha saputo diversificare la sua struttura economica, che oggi è interamente dipendente dalla produzione di gas, idrocarburi e materie prime in genere. Noi, ed i tedeschi ancora di più, abbiamo bisogno del gas russo, ma i russi hanno necessità di essere pagati e sono molto soggetti alle oscillazioni dei prezzi dei prezzi petroliferi e dei cali di consumi. Non è un caso se, dopo la crisi del 2008, in Europa i consumi di gas sono diminuiti e questo ha avuto un impatto molto rilevante sull’economia russa, più delle tanto discusse sanzioni. L’andamento dei prezzi è stato dal 2008 sino ad oggi ampiamente sotto una soglia che permetta ai paesi produttori di ottenere una parità fiscale. Peraltro la struttura dei prezzi è cambiata anche in conseguenza non solo della riduzione dei consumi, ma anche per l’inizio di produzione di petrolio e gas di scisto negli Stati Uniti. Questa produzione, per quanto non infinita ed effimera, ha offerto sino ad oggi a Washington un’autonomia energetica che ha contribuito a comprimere i prezzi per eccesso d’offerta. Tuttavia quando non si hanno i conti apposto, la sicurezza energetica diventa un tema molto rilevante per la propria economia in quanto lievi rialzi appesantiscono il debito complessivo.
La necessità di un maggiore impegno dell’Alleanza nell’area Mena non trova tutti i membri sempre favorevoli. Quanto pesano nelle scelte dell’Alleanza la competizione tra Regione Orientale e Regione Meridionale?
Va fatta una premessa. Purtroppo non tutti i paesi presenti nella regione sud svolgono il proprio ruolo. Alcuni non hanno interesse a farlo all’interno dell’Alleanza, mentre altri giocano più in retroguardia. Altri paesi, penso alla Francia, giocano di sponda, inseguendo le proprie priorità nazionali. Il problema non riguarda il fatto che vi sia un dibattito artificiale interno alla Nato, tra sicurezza a est o a sud, la sicurezza in realtà è indivisibile e quindi ha valore in entrambe le regioni. Il problema è quando alcuni paesi dell’Europa orientale da un lato chiedono la protezione degli alleati e, contemporaneamente, cercano altre garanzie di sicurezza attraverso accordi bilaterali con alleati maggiori. Ogni paese è libero di fare la politica di sicurezza che vuole, ma deve rendersi conto che non agisce da solo e che le asimmetrie politiche corrodono la coesione e la solidarietà politica reciproca. La coesione dell’Alleanza sia tra alleati sia rispetto ai valori della Carta Atlantica è la chiave di volta delle Nato. Molto più dei dibattiti su quale minaccia sia più grande, pesa la reciproca fiducia tra alleati e non in un quadro contabile, ma di concrete capacità ed impegni politici (cioè Capabilities and Commitments)
Quali sono le principali azioni che la Nato nel Mediterraneo dovrebbe mettere in campo o rafforzare?
Oltre allo sviluppo del Hub di Napoli, sicuramente i partenariati vanno rilanciati e valorizzati di più perché sono basati su precisi accordi politici. Basti pensare che nella Middle East Faculty del Nato Defense College prima partecipavano anche ufficiali sauditi ed omaniti (non formalmente membri di un partenariato), il che dimostra il grande bisogno di connessione di cui questi paesi hanno bisogno in un quadro equilibrato come quello atlantico. È un’esperienza da non disperdere, specie in questo momento di convulsione mediorientale. Poi bisogna preparare l’ingresso di altri paesi per ora assenti ed intensificare le attività. Attraverso i partenariati si produce cooperazione, si permette una crescita reciproca di fiducia e capacità e, soprattutto, si garantisce una presenza costante e costruttiva. Al di là delle iniziative e degli interessi dei membri che agiscono maggiormente nel Mediterraneo, la stabilità di quest’area è fondamentale per la Nato. La stabilità di paesi come la Libia, per esempio, ha ripercussioni sulla sicurezza sia di tutto il Mediterraneo che del Sahel e di conseguenza dell’Alleanza per tutte quelle connessioni di cui l’energia o il terrorismo sono gli aspetti più mediatizzati. Per questo, la presenza dell’Alleanza è importante in primis sul piano politico in queste aree, perché se si vuol favorire la stabilità nel Nord Africa è necessario anche un rapporto con l’Unione Africana.
Guardando anche in prospettiva, e anche oltre la sola area del Mediterraneo, è immaginabile un ruolo più globale della Nato?
Prima del 1989 nessuno si sognava che la Nato potesse discutere di azioni oltremare o fuori area. Dopo il 1991 invece si sono verificate le condizioni per un ruolo diverso e nuovo della Nato e l’Alleanza ha dimostrato di saper intervenire e agire là dove le condizioni politiche date dai suoi alleati le permettevano di agire. Va fatta una premessa: per le missioni e le operazioni della Nato, vale lo stesso principio alla base di quelle dell’Onu. Il successo di una missione dipende molto anche da quanto i partecipanti s’impegnano, in termini economici, militari, politici, alla sua riuscita. Per questo alcune missioni sono riuscite, come quelle nei Balcani, e altre no. L’Afghanistan è un esempio chiaro di questa sproporzione tra costi necessari e investimenti sostenuti; l’investimento in euro pro capite e di soldati per chilometro quadrato è stato nettamente più basso che nei Balcani. In ogni caso, ogni volta che la Nato è stata chiamata, ha saputo svolgere la sua missione in teatri molto diversi tra loro.
Vista anche la rilevanza che l’Africa riveste per la sicurezza e la stabilità del bacino del Mediterraneo, ma anche in ragione degli interessi di altre potenze, come la Cina, in questo continente, sarebbe immaginabile una proiezione della Nato verso l’Africa?
Come ho detto, la Nato ha ampiamente dimostrato di saper agire all’estero e fuori dal suo perimetro. Tuttavia non è un caso che nessun paese africano abbia voluto ospitare il comando strategico statunitense Africom, mentre in dialogo tra Nato ed Unione Africana procede con regolarità da 13 anni. Molti paesi africani potrebbero essere lieti di aver un rapporto non invadente, ma in grado di aiutarli nell’individuare risposte ai loro problemi. L’esperienza dei partenariati è un’ottima base per approfondire consensualmente le relazioni a seconda delle disponibilità delle nazioni africane.
Certo un’iniziativa così ampia, verso un continente complesso come l’Africa, necessita di una capacità di visione strategica che va oltre il dibattito sterile interno alla Nato tra minacce da est o da sud. L’Alleanza ha fatto tanto in questi 70 anni per garantire stabilità e sicurezza in Europa e intorno ai confini europei, e questo capitale costruito nel tempo non può essere scialacquato da frasi avventate, ricatti contabili e sterili contrapposizioni. La Nato va difesa e promossa per l’utilità che riveste per tutti i suoi membri e deve essere preparata anche ad affrontare le sfide future con una maggiore coesione e senza inutili divisioni interne.
Enrico Casini è direttore di Europa Atlantica