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La Nato e la nuova centralità strategica del Mediterraneo

Di Matteo Gerlini

Nel trentennale della caduta del muro di Berlino il significato strategico del bacino Mediterraneo è diversamente attuale e sempre rilevante.

Il grande storico della tecnologia David Edgerton ricorda nel suo lavoro più celebre, The Shock of the Old, quanto la cavalleria fosse stata utile nell’invasione nazista della Polonia. Sebbene la tecnologia militare avesse ampiamente sviluppato la motorizzazione delle truppe di terra, il trasporto animale non era stato eliminato ma aveva trovato un suo differente ruolo nelle operazioni belliche. Nella cultura italiana, il Mediterraneo è considerato culla delle civiltà o mare nostrum, a seconda delle sensibilità politiche; cosa non dissimile accade in altri Paesi rivieraschi, basti considerare la grande lectio braudeliana, vera pietra miliare nel dibattito culturale dello scorso secolo. Visto così, il Mediterraneo appare però inevitabilmente il mare delle vestigia, ovvero custode di un passato determinante per la storia umana e per il mondo di oggi – basti pensare alla democrazia, al diritto, al concetto di civiltà come elementi connotanti il pensiero moderno e contemporaneo – ma per definizione passato, quindi ormai lontano dalle dinamiche del mondo globalizzato.

Se guardiamo al Mediterraneo come spazio antropico si deve senz’altro tenere conto di questa lettura, che però implicitamente intende il Mediterraneo esclusivamente come mare dei Paesi rivieraschi. Con l’eccezione dello stato nazionale francese, il declino politico degli imperi mediterranei congiuntamente alla realizzazione del canale di Suez nel 1869 ha reso la culla delle civiltà uno snodo fondamentale del transito marittimo globale. Questo ha spostato il baricentro politico dai soggetti rivieraschi alle potenze mondiali, europee e non solo; ma se la storia veniva fatta altrove, dal mar mediterraneo sarebbe comunque in buona parte passata. Il ciclo storico è ben lungi dall’essere concluso, anche tenendo conto delle prospettive date dallo scioglimento dei ghiacci del Mare Artico o dalle vie terrestri del commercio fra Europa e Asia. Anzi, proprio la crescita del commercio globale, avvenuta successivamente al collasso sovietico, ha accresciuto l’importanza del Mediterraneo come via di comunicazione, mentre proprio la fine del modo bipolare rendeva il mare meno conteso e quindi meno presidiato militarmente.

Se questo è ancora oggi il tema connotante il ruolo strategico del Mediterraneo, sarebbe erroneo ritenere che i problemi relativi alla difesa e alla sicurezza del mare siano scomparsi o anche solo diminuiti: sono invece cambiati, come mutati sono i player strategici del nuovo Mediterraneo, sin dalla fine del confronto fra le superpotenze. In questo quadro, la Nato continua a detenere la difesa del bacino rispetto a potenze che, con la parziale eccezione della Russia, non possono rappresentare un reale rischio per tale egemonia. Questo non è accaduto solamente per la capacità militare dispiegata dagli stati membri della Nato durante l’ultima fase di tensione della Guerra Fredda – Repubblica francese sostanzialmente inclusa, anche se fuori dal comando integrato – ma anche per l’avvicinamento politico e militare alla Nato dei Paesi della sponda meridionale del mare. Un avvicinamento militare, come le esercitazioni congiunte con le forze armate egiziane iniziate negli anni Ottanta, ma soprattutto politico, come i due grandi partenariati Mediterranean Dialogue e Istanbul Cooperation Initiative di cui ricorrono gli anniversari. Per comprendere la fase attuale si deve dunque risalire a quella cosiddetta seconda Guerra Fredda, iniziata alla fine degli anni Settanta sulle ceneri della grande distensione fra le superpotenze sancita dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Il mondo post-sovietico trova le sue radici nella seconda Guerra fredda, e la sua rinnovata divisione dello scenario strategico mediterraneo fra Stati prossimi alla Nato, e Stati di riflesso orientati verso il Patto di Varsavia, come Siria, Libia e Algeria. Un orientamento dato però sempre più da contingenze politiche dettate dagli antagonismi interni al mondo arabo, piuttosto che da intese strategiche di respiro.

La seconda Guerra Fredda vide un ruolo di primo piano dell’Islam politico, sia sunnita che sciiita, che divenne nuovamente soggetto politico-militare nelle sue varie declinazioni, dalla resistenza antisovietica in Afghanistan fino all’instaurazione della Repubblica islamica in Iran. Il crollo del sistema sovietico, inaspettato nella sua rapidità, lasciò i suoi interlocutori mediterranei nella posizione di acquirenti di armamenti ma privi di qualsiasi elementare intesa strategica, con la sola eccezione delle basi russe in territorio siriano, mantenute nei difficili anni di transizione dal 1989 alla cosiddetta era Eltsin. La fine della Jugoslavia e l’intervento in Bosnia-Erzegovina nel 1995 e in Kosovo nel 1999 confermarono a tutti i Paesi rivieraschi e soprattutto alle potenze mondiali che la difesa del Mediterraneo continuava ad appartenere alla Nato (e ai suoi membri), unico soggetto in grado di impiegare lo strumento militare in prospettiva di stabilità sulle sponde del bacino muovendo dal sistema di difesa lì dislocato. L’allargamento della Nato a Romania e Bulgaria rafforzò la presenza marittima nel Mar Nero, bacino afferente, ovvero parte di quel Mediterraneo allargato a cui appartiene anche il Mar Rosso.

Diventa comprensibile quindi che il mare non abbia perso di valore nel sistema di difesa della Nato: l’attenzione verso il Mediterraneo, sancita dal rapporto Harmel (richiamato in un precedente articolo), non è mai diminuita negli anni successivi, nemmeno dopo la fine della superpotenza sovietica. È invece cambiata la natura strategica del mare, per vari elementi che in in altrettanto vari modi influenzano la presenza militare della Nato. È evidente che la rotta del commercio cinese si è aggiunta a quella storicamente consolidata di rotta petrolifera e di transito delle pipeline. È altrettanto evidente che il panorama socioeconomico africano prodotto dalla decolonizzazione sta cedendo il passo alla penetrazione cinese e al disimpegno statunitense, prospettando nuovi conflitti politici per un continente in forte dinamica demografica e economica. Quindi il Mediterraneo è confine dell’Africa, con le tensioni che si intersecano con i conflitti religiosi o intrareligiosi, del quale l’Algeria degli anni Novanta è stata una prima testimonianza. Il conflitto interno al sunnismo, con le formazioni politiche radicali contrapposte ai gruppi dirigenti al governo dei Paesi del Nord Africa, è interpretabile come onda lunga della mobilitazione islamica antisovietica e come passaggio di trasformazione di un eterogeneo arcipelago di radicalismo religioso armato, che cambia i suoi obiettivi o che, se si preferisce, rivede la sua ragion d’essere. La crescita demografica africana si riversa tramite il mare nella crisi demografica europea, con flussi migratori attraverso paesi che storicamente erano stati invece luoghi di emigrazione, come l’Italia.

Del resto le trasformazioni del sistema internazionale avvenute in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti hanno portato a una serie di cambiamenti nel mondo arabo e islamico in generale, in cui la Nato è stata coinvolta in modo chiaramente dipendente dall’atteggiamento dei suoi membri sulla questione della guerra al terrore, a partire dalla missione Isaf in Afghanistan. L’altrettanto divisiva questione della democrazia nei paesi arabi ha sottinteso al rovesciamento del regime iracheno da parte di una coalizione che ha beneficiato delle strutture dell’alleanza, nei paesi membri della coalizione stessa. Una questione, quella della transizione alla democrazia, che ha riguardato direttamente lo sviluppo di quel ciclo di movimenti, rivolte e rivoluzioni chiamato sommariamente primavere arabe. Gli esiti incerti dell’intero ciclo, sul piano delle acquisizioni democratiche, sono invece piuttosto definiti nel constatare che i due Paesi dove la repressione delle istanze di rinnovamento è tracimata nella guerra civile erano quelli rimasti maggiormente legati all’ex Unione Sovietica. L’intervento Nato in Libia, e quello poi abortito in Siria, si collegano strettamente con gli eventi che hanno portato l’alleanza a sostenere la coalizione contro l’Isis nel Levante e in Mesopotamia.

Dalla crisi dell’Unione Sovietica il Mediterraneo è quindi stato oggetto di una ricollocazione strategica della Nato, nei fatti prima che nella dottrina, che ha portato l’aspetto della sicurezza a prevalere su quello della difesa classicamente inteso, e a fronteggiare minacce ibride e soprattutto bande armate in situazioni dove lo stato è collassato. Una sfida inedita che pone interrogativi sulla scelte dell’alleanza e sui suoi necessari adeguamenti a una situazione ormai bel lontana dall’ultima Guerra Fredda.

 

Matteo Gerlini



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