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A cinquant’anni dalla scomparsa, l’impegno di Giulio Pastore, ministro e sindacalista

Di Sergio Zoppi

In Italia, all’inizio delle terza legislatura repubblicana, il 1° luglio 1958 prende il via il governo della Repubblica presieduto da Amintore Fanfani. Tra i ministri è presente, per la prima volta, Giulio Pastore parlamentare dal 1948 e già membro dell’Assemblea costituente, nonché fondatore nel 1950 del sindacato dei lavoratori Cisl, di cui, fino a quel momento, è stato il segretario generale.

Nemmeno quattro mesi dopo – il tempo che si dimostrerà necessario perché il nuovo ministro s’impadronisca dei meccanismi governativi e, in particolare, delle peculiarità dell’ancora recente ma complesso intervento pubblico straordinario in un’area che è oltre un terzo di quella dell’intero Paese – Pastore è a Bari per chiudere i battenti della XXII Fiera del Levante, fin dal suo nascere proiettata verso il Mediterraneo e il vicino Oriente e dal secondo dopoguerra attenta all’Europa.

È il 21 settembre e l’occasione per Pastore di delineare la sua visione di ministro. Nel discorso entra immediatamente nel vivo dei problemi con pacatezza, chiarezza, determinazione.

“Oggi si parla di un secondo tempo o ciclo della politica meridionalistica; sarà bene precisare i termini insiti in questa formula per farla uscire dalla sua genericità ed entrare nelle concretezza degli obiettivi che si intendono perseguire. Anzitutto lo sforzo di politica di sviluppo richiede attualmente una scelta di orientamenti produttivi in questo o quel settore di attività economica.

La Cassa per il Mezzogiorno nei settori che l’hanno vista prevalentemente impegnata in questi anni – opere pubbliche ed opere di bonifica e trasformazione fondiaria – ha agito con piani di portata pluriennale assicurandosi, nel suo improbo compito, una visione estremamente unitaria. Configurando il secondo ciclo, nel quale avrà risalto una politica di industrializzazione, non si dovrà prescindere da identico, saggio metodo.

Per togliere di mezzo ogni equivoco, dirò subito che noi tendiamo ad avviare concretamente un processo di industrializzazione su vasta scala, dando la preferenza a quei tipi di programma  che prevedono la localizzazione in specifiche zone di sviluppo integrale. Perché questo processo si attui, noi partiamo dalla convinzione che si deve sviluppare, all’interno della compagine amministrativa dello Stato italiano, una sempre maggiore capacità di coordinamento degli interventi pubblici, e di quelli pubblici rispetto alla sfera dei privati. Il coordinamento, nato come aspirazione concreta scaturita dalla esperienza statale nel Mezzogiono in questi ultimi anni, rappresenta il concetto cardine della politica meridionalistica che stiamo per intraprendere. La funzionalità dell’organismo statale, dal quale dipende la possibilità di realizzare con successo le iniziative industriali e vastamente economiche  che abbiamo in animo di concludere, è collegata alla capacità stessa di questo organismo di articolarsi e di attingere un alto grado di equilibrio interno e di reciproca collaborazione tra le varie parti che lo compongono.

Le direttrici lungo le quali il processo di industrializzazione dovrà avviarsi sono essenzialmente due. La prima è quella che scaturisce dalle cose stesse, dall’attuale situazione dell’economia meridionale: vale a dire che v’è necessità di sviluppare le attitudini tradizionali esistenti, riguardo alle quali si riscontrano ragioni non solo sociali, ma anche economiche, che postulano la loro sussistenza  e la loro espansione. La seconda direttrice si riferisce alla creazione nel Mezzogiorno di una nuova industria connessa, da un canto, con le esigenze dello sviluppo economico e sociale delle regioni meridionali stesse, e, dall’altro canto, con le sempre maggiori richieste provenienti dalle regioni mediterranee in genere e del Vicino e Medio Oriente in particolare.

In concreto, l’attivazione di questo processo richiede un duplice, coordinato sforzo: da una parte, lo Stato deve intervenire con tutte le sue forze per continuare a determinare un ambiente idoneo ad accogliere i nuovi impianti, a sollecitare l’attività ed il progresso tecnico. Dall’altra parte, sono i privati che dovranno concorrere alla formazione di nuove industrie. In questo senso è preoccupazione del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno studiare ed applicare i metodi di incentivazione, che offrano al privato opportune garanzie rispetto agli investimenti che essi hanno in animo di fare nel Mezzogiorno. Abbiamo anche in animo di localizzare con sempre maggiore precisione le zone o i distretti di intervento industriale, collegando strettamente la creazione di nuovi impianti alla definizione ed alla massima funzionalità delle opere di infrastruttura. Naturalmente questa impostazione del problema non esclude, anzi implica intimamente l’intervento dello Stato nel processo di industrlializzazione, particolarmente nel settore dell’industria di base. Tipico esempio di questa concezione dell’intervento statale può essere considerato l’impianto siderurgico che il Governo si è impegnato a localizzare nel Mezzogiorno, impegno che ho oggi il piacere di confermare”.

In Pastore è chiaramente espresso il convincimento che l’industrializzazione del Mezzogiorno avrà successo solo se si realizzerà un’azione coordinta tra intervento straordinario e intervento ordinario, se l’azione della Cassa potrà giovarsi dell’apporto dei privati imprenditori, se l’intervento centrale dello Stato si svilupperà sinergicamente con l’apporto del mercato. La svolta è determinata dalla volontà di dar vita a quello che a Taranto, attraverso l’Iri, diventerà il nuovo imponente centro siderurgico.

Se l’industrializzazione è il passaggio obbligato per affrontare alle radici l’annosa questione meridionale, Pastore – è un sollecito che parte dalla stessa Puglia – non può trascurare le questioni che la Cassa dal suo nascere è stata chiamata ad affrontare e risolvere.

“La vasta azione, portata avanti in questi anni nelle province meridionali sul piano delle infrastrutture ha bisogno di essere sorretta con provvedimenti che ne garantiscano la manutenzione e la funzionalità: mi riferisco fra l’altro agli acquedotti e alle fognature per i quali mi propongo di procedere, in accordo con i Ministri dei Lavori Pubblici e del Tesoro, alla formulazione e presentazione di apposito disegno di legge di delega al Governo per la istituzione di enti di diritto pubblico, aventi lo scopo di sovrintendere all’esercizio e alla manutenzione delle opere costruite. Altro problema è rappresentato dalla esigenza di conservare la necessaria efficienza alla vasta nuova rete stradale costruita per l’intervento della Cassa. In taluni casi la assunzione di tale rete da parte della Amministrazioni Comunali e Provinciali ha fatto e potrà far insorgere questioni di bilancio per le stesse Amministrazioni. Nella fiducia che i recenti provvedimenti riguardanti la finanza locale possano largamente consentire alle Amministrazioni di far fronte agli oneri loro derivanti per le nuove strade, non è escluso un ulteriore esame del complesso problema, e ciò di concerto con gli altri Ministeri interessati”.

Pastore prosegue auspicando la più ampia cooperazione fra Stato e privati. Illustra un programma che attrezzi la macchina pubblica, centrale e locale, facilitando l’apporto dei privati imprenditori. Poiché questi traguardi siano raggiunti, appare necessario – uno dei grandi temi sempre presenti nella mente del ministro – contare su una classe dirigente (la quale non è solo l’élite ma che in Pastore si estende e comprende, con piena dignità, i contadini e gli  operai chiamati a garantire il successo dei programmi) all’altezza dell’impresa che si è chiamati a intraprendere.

“Dal punto di vista sociale ed umano la formazione del personale nel Mezzogiorno costituisce uno degli elementi fondamentali per la formazione d’una moderna industria, ed è infatti uno degli impegni di maggior rilievo assunti dall’attuale Governo. In questo settore l’intervento non deve limitarsi alla pura istruzione professionale, intesa come qualificazione puramente operativa del lavoratore, ma deve piuttosto richiamarsi alla più vasta e realistica concezione della formazione della persona. Esso deve abbracciare, cioé, la preparazione tecnica e culturale di tutti i tipi di personale tecnicamente idoneo a ricoprire i ruoli assegnatogli in un sistema produttivo di tipo moderno”.

Pastore, al riguardo, illustra per grandi linee il piano decennale appena elaborato nei diversi settori d’intervento. Una specifica attenzione è dedicata ai Consorzi di bonifica, con l’indicazione dei percorsi da seguire affinché essi garantiscano l’efficacia del loro operare. La natura e la funzione dei Consorzi richiedono, da parte dello Stato, “l’impegno a tenere nella massima considerazione l’iniziativa e l’autonomia degli operatori privati, e noi difenderemo con tutta la forza questa posizione, per la consapevolezza del ruolo insostituibile dell’iniziativa privata in un processo di sviluppo”.

Al tempo stesso ammonisce: “È tuttavia necessario affermare con altrettanta decisione e franchezza che le esigenze di una politica di sviluppo, che investe tutto il paese, non possono subordinarsi all’interesse e, qualche  volta anche al capriccio, di quella parte di privati che danno prova di non volersi aprire alle esigenze del bene comune”.

Nel suo intervento Pastore tratta anche le questioni dell’accesso al credito, della cooperazione, dell’assistenza tecnica, della politica agraria, del ruolo degli enti di riforma inserendo un passaggio, su un campo, quello della responsabile partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche, trascurato, che appare lungimirante: “Noi intendiamo sollecitare enti e cittadini ad uno sforzo concreto di programmazione locale, chiedere la loro collaborazione nell’elaborazione dei nostri piani, esigere un maggior coordinamento fra gli sforzi del centro e quegli delle Amministrazioni, degli enti, dei gruppi a livello regionale, provinciale e comunale” così da “reinserire l’uomo nel vivo del processo storico e delle esperienze dello Stato italiano”, altrimenti, sottolinea, gli impegni diverranno tentativi che cadranno nel vuoto e nell’indifferenza.

Per un decennio Pastore tenne fede alle idee e ai programmi appena richiamati, conseguendo successi e riportando sconfitte. Egli non aveva esperienze ministeriali alle spalle, né una particolare dimestichezza con la burocrazia romana. Il Mezzogiorno lo aveva conosciuto visitando le diocesi, parlando con i vescovi e con i dirigenti dell’Azione cattolica negli anni in cui aveva ricoperto, nella stessa A.C.I., il ruolo di dirigente nazionale per la diffusione della stampa; più intensamente negli anni del sindacato dei lavoratori. Nel Comitato dei ministri per il Mezzogiorno che è chiamato a presiedere non trova una burocrazia incardinata. Il ministro presidente si avvale di una segreteria (a volte definita tecnica, a volte generale) formata da personale, prevalentemente giovane, in parte di fiducia del ministro di turno, in parte rimasta in servizio a partire dal 1950. Pastore recluterà molti dei suoi collaboratori tra le fila della Cisl, dando, ancora una volta, piena fiducia a Mario Romani, studioso di prestigio e professore ordinario di storia economica nell’Università Cattolica di Milano, nei primi mesi di governo collaboratore prezioso, nella sua audacia sorretta da valide motivazioni che pure Pastore non ritenne di far sue nel loro obiettivo finale: cambiare la guida operativa dell’intervento straordinario.

Fra Gabriele Pescatore, presidente della Cassa dal 1954 (i fondatori furono Ferdinando Rocco e Alfredo Scaglioni) fine giurista, ottimo diplomatico, affascinante guida di uomini, determinato operatore e Pastore, dopo qualche settimana di diffidenza, d’incomprensione e di formali cortesie, s’instaurò un rapporto di collaborazione, stima e poi amicizia che contribuì ad accrescere i risultati tra il 1958 e il 1968.

In sintesi, gli anni dal 1958 al 1968 fanno parte della fase di crescita forte e stabile dell’intera economia italiana; nel corso della quale intervengono i più importanti mutamenti nella struttura dell’economia e della società del Mezzogiorno.

Il prodotto pro capite, indicatore che viene utilizzato come misura del livello di sviluppo di un’area, nel decennio aumenta del 146% nel Mezzogiorno a fronte del 133% nella media italiana. Un risultato che pone in luce un chiaro netto processo di convergenza del Sud il cui reddito pro capite aumenta dal 64,6% nel 1958 della media italiana al 68,2% nel 1968.

Una profonda e radicale trasformazione interessa il settore agricolo e quello industriale. Il primo settore perde le connotazioni di un’economia di sussistenza per assumere sempre più le caratteristiche di una moderna economia agricola; nel secondo alla caduta, di rilevante intensità, delle attività di artigianato tradizionale si contrappone un altrettanto intenso sviluppo dell’industria moderna. L’effetto netto è ovviamente sintesi di una riduzione dell’occupazione agricola e di una crescita nell’industria in senso stretto. La prima perde nel decennio in questione oltre un milione di occupati a fronte dei 2,8 milioni persi a livello nazionale. La seconda invece aumenta l’occupazione di 54 mila unità come soma algebrica di un aumento di 113 occupati alle dipendenze e di un calo degli autonomi di 59 mila unità. Nell’intero territorio nazionale gli occupati industriali aumentano di 624 mila unità, frutto di una crescita dei dipendenti di 767 mila unità e di una flessione degli autonomi di 143 mila unità.

Gli indicatori sociali più importanti per valutare a pieno le trasformazioni della società meridionale e la connessione tra essi e i processi di sviluppo e modernizzazione del sistema economico sono certamente quelli relativi all’istruzione. All’inizio del periodo nel Mezzogiorno il 16,4% della popolazione con più di 6 anni di età risultava analfabeta, dieci anni dopo tale quota si riduceva al 10,7%, gli analfabeti infatti si sono ridotti di quasi un terzo, come nel resto del Paese, nel quale il peso degli analfabeti è meno della metà di quello del Sud. Alla progressiva riduzione dell’analfabetismo ha fatto riscontro un sensibile aumento dei diplomati e dei laureati che nel mezzogiorno aumentano la quota nel decennio dal 4,7% all’8,1%, allineandosi in tal modo con la media nazionale che passa dal 5,6% all’8,7%.

Nel decennio Pastore si mantenne dunque fedele ai principi enunciati nel suo esordio alla Fiera del Levante. Lasciò anche due documenti che sono pietre miliari del felice programmare e del buon amministrare: nel 1960 la prima Relazione al Parlamento (legge 18 marzo 1959, n. 101) e nel 1965 il primo Piano di coordinamento degli interventi nel Mezzogiorno (legge 26 giugno 1965, n. 717).

Una visione, che si sostanziava nella convinta necessità di una politica di piano in regime democratico, ribadita, sviluppata, argomentata in vari editoriali apparsi in quegli anni nella rivista da lui diretta “Il nuovo osservatore”.

Un ministro, Pastore, attento all’esigenza che il progetto approvato avesse piena realizzazione, nei tempi e nei modi stabiliti. Ciascuna azione non era mai regolata sull’orologio del personale tornaconto ma su quello dell’accrescimento del bene collettivo. Agiva ricercando il contributo di tutti gli operatori – dalla amministrazioni locali alle associazioni imprenditoriali – con l’orecchio ugualmente proteso a cogliere l’apporto dei lavoratori dipendenti. Anche nei momenti di tensione e di consapevolezza che una data iniziativa non avrebbe raggiunto il fine assegnatole, nel dolersene e forse tormentandosi, non perdeva la serenità che sempre lo accompagnava, alla quale dava un apporto essenziale la fede cristiana mai sbandierata eppure ovunque resa esplicita. Era sempre pronto a ricercare e a individuare nuove iniziative da intraprendere, capace di valutarle in tutti i loro aspetti, potendo contare sull’apporto generoso e capace di Giovanni Marongiu e di Vincenzo Scotti. Era sempre alla ricerca della competenza, delle capacità professionali, sia amministrative che tecniche, spesso solo intuite nei giovani,  in una concezione della preparazione e della conduzione dell’azione di governo, nella  sua ricerca diventava un’esigenza, che lo avvicinava a Da Gasperi, pur essendo le due personalità diverse e, a volte, distanti.

Pastore non raggiunse alcuni traguardi che si era prefisso. Vi furono ostacoli governativi, parlamentari, politici, culturali. L’intervento ordinario (quello in primo luogo dei ministeri) disertò l’impegno a favore del Mezzogiorno concentrando la spesa nei territori dell’Italia centrosettentrionale: fallì così, per mancanza di strumenti cogenti, l’azione di coordinamento che avrebbe dovuto essere il caposaldo dell’azione del Comitato dei ministri. Grandi insediamenti industriali, privati e pubblici, si realizzarono nel Mezzogiorno (non pochi messi in ginocchio dalla crisi mondiale del 1973) non agevolati nel loro operare dalla frammentazione degli investimenti infrastrutturali destinati ad attrezzare i poli di sviluppo industriale. Per avere il loro effetto, concentrando in modo efficace le risorse disponibili, quei poli non avrebbero dovuto essere più di quattro-cinque nell’intero Mezzogiorno. Alla fine per la pressione dei deputati e dei senatori, di tutti i partiti, che manifestavano le attese dei loro collegi elettorali, si arrivò, con il cedimento di Pastore, a oltre sessanta tra aree e nuclei industriali, annacquando le disponibilità e rinunciando a dare una configurazione avanzata al Sud.

Ma se debolezze ed errori vi furono, non mancò l’onestà, la consapevolezza, l’impegno quotidiano, la dedizione al bene comune, la volontà di immettere, inventando e realizzando appositi centri e società, nuova e preparata classe dirigente sul territorio. Un’impronta non del tutto cancellata perché animata da un sapere vivo e profondo che portava Pastore ovunque a insistere sul ruolo privilegiato da assegnare alla scuola, chiave di volta per l’indispensabile trasformazione culturale individuale e sociale.

 

 

 

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