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Trump, la Siria e i crimini della realpolitik. L’analisi di Saini Fasanotti (Brookings)

Di Federica Saini Fasanotti

Come volevasi dimostrare, i turchi hanno iniziato ad attaccare, forti del lasciapassare americano. Con la scusa della lotta al terrorismo curdo (nell’ottica di assestare il colpo mortale ai suoi storici nemici del Pkk) e il riposizionamento di circa due milioni di profughi creati dalla guerra civile siriana (che sono una spina nel fianco per il consenso fra i suoi connazionali), il presidente turco Erdogan ha iniziato l’operazione militare “Primavera di Pace”, un ossimoro, questo, che già fa sorridere. Di pacifico qui non c’è nulla.

I turchi hanno già bombardato pesantemente la fascia di territorio sul confine siriano che non solo è abitata da civili, ma che ospita anche molti prigionieri dell’Isis: migliaia di uomini e le loro famiglie che non aspettano altro che le porte delle carceri vengano aperte.

A questo punto è necessario fare un passo indietro nel tempo, nel settembre 2014, quando l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama chiamò il generale John R. Allen a coordinare gli sforzi per costituire una coalizione internazionale col compito di contrastare il sedicente Stato Islamico. Nel giro di poche settimane Allen fu in grado di raccogliere sotto la sua guida 65 nazioni, fuori e dentro la regione. Ma erano tempi diversi, quelli: oggi grazie alle azioni sconsiderate dell’attuale presidente Donald Trump, una simile risposta alla chiamata statunitense sarebbe impensabile. Allora gli Stati Uniti non esitarono ad appoggiarsi alle forze democratiche siriane, composte da varie minoranze, compresi i curdi. Così come la Turchia, allora, non sollevò alcuna obiezione – vista la posta in palio – e sono convinta che avrebbe continuato ad accettare la collaborazione tra forze militari americane e curde in quello scacchiere. Questioni di Realpolitik, qualcuno avrebbe detto.

La conversazione privata di Trump con Erdogan ha però creato un caos senza precedenti. All’origine di queste telefonate non c’è una strategia, quanto piuttosto la ricerca di un consenso pubblico e i tweet presidenziali ne sono la prova. La politica estera non si fa attraverso comunicazioni personali online. Non è così che una nazione come gli Stati Uniti è abituata a procedere. Questo modus agendi, infatti, ha delle conseguenze dirompenti non soltanto all’esterno, ma anche e soprattutto all’interno dell’amministrazione americana che è straordinariamente rigida. A questo proposito è tragicamente buffo osservare come i repubblicani abbiano stigmatizzato Trump per l’abbandono degli alleati curdi e non per ciò che egli sta facendo alla Costituzione del loro stesso Paese. I danni che questo presidente sta producendo si vedranno nel tempo e, d’altro canto, sulla sua stoffa era difficile avere dubbi.

Ritornando alla Siria, va detto che quando si entra in un’area del genere, così delicata in termini di equilibri, non si sa come e quando se ne uscirà. Non ci vuole la palla di cristallo per immaginare quanto saranno disastrosi gli effetti dell’attacco turco contro coloro che hanno combattuto per anni un nemico spietato e resiliente come l’Isis, riuscendo, più di chiunque altro e al prezzo di enormi sacrifici, a sconfiggerlo territorialmente. E sottolineo “territorialmente” perché le altre dimensioni dello Stato Islamico sono ben lungi dall’essere risolte. I curdi da stabilizzatori nella lotta contro l’Isis, diventeranno il principale motivo di destabilizzazione per l’intera regione. Lo abbiamo già visto in Afghanistan e in Libia, tanto per fare due esempi.

Ecco perché il ristretto contingente militare americano, ora spostato da quella zona, aveva un valore inimmaginabile: erano quelle poche centinaia di uomini a fare la differenza non solo tatticamente, ma soprattutto strategicamente. Ed è proprio la mancata capacità strategica uno dei principali difetti di questa amministrazione americana. Per i curdi, resistere all’occupazione turca è un tema assolutamente esistenziale, pertanto i risultati di questo attacco saranno drammatici, anche in termini umanitari, e quindi di profughi. La prima ad accorgersene sarà l’Europa.        

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