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Perché lo stop alle vendite militari non salverà i curdi. Parla Nones (Iai)

Fermare le vendite di armi alla Turchia non salverà i curdi. Manca un approccio comune europeo e soprattutto un coordinamento con gli Stati Uniti. Parola di Michele Nones, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), che con Formiche.net ha commentato lo stop alle vendite di armi alla Turchia previsto nel decreto firmato dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. L’atto interno alla Farnesina, fa sapere l’Ansa, è volto nello specifico a bloccare le vendite future e ad avviare un’istruttoria sui contratti in essere, così come annunciato nell’informativa urgente di ieri al Parlamento. Un primo annuncio in tal senso c’era già stato lo scorso lunedì, quando Di Maio aveva partecipato con i colleghi europei al Consiglio di Lussemburgo. Le conclusioni di quel vertice riportavano la condanna all’azione turca, ma scartavano l’ipotesi di un embargo comune optando invece per la libera iniziativa dei singoli Stati.

Professore, la decisione presa da Di Maio la convince?

Non mi convince, ma non per l’Italia, quanto per l’Europa, poiché credo che non siano misure efficaci. La prima cosa da dire è infatti che il nostro Paese sembra muoversi in parallelo con le azioni che hanno deciso di intraprendere tutti gli altri principali Stati europei, in particolare quelli che hanno fornito equipaggiamenti alla Turchia. Certo, è evidente che l’effetto sarebbe stato maggiore se la posizione europea, per lo meno dal punto di vista del contenuto, fosse stata coordinata completamente e resa omogenea, per quanto fosse inevitabile doversi poi articolare a livello nazionale.

Perché era inevitabile muoversi a livello nazionale?

Perché non stiamo parlando di un Paese qualsiasi, ma di uno Stato a cui la maggior parte dei Paesi europei sono legati attraverso l’Alleanza Atlantica, e in cui alcuni di essi sono presenti con reparti militari operativi a supporto della difesa dei confini turchi. Anche l’Italia è presente con un reparto dotato di missili Samp/T. Per questo era impensabile che una decisione europea potesse assumere la forma di un vero e proprio embargo comune. Eppure, tra l’embargo europeo e la marcia in ordine sparso poteva esserci nel mezzo la via di una decisione uguale per tutti, quantomeno nei termini in cui doveva poi essere resa operativa.

Ma tali misure fermeranno l’iniziativa turca nel nord est della Siria?

Per quanto riguarda i futuri potenziali contratti, è chiaro che la posizione adottata ha una certa valenza politica, ma nessun effetto dal punto di vista operativo. Si rivolge a un orizzonte temporale molto lontano, e non incide in alcun modo sull’operatività delle Forze armate turche, che chiaramente operano con i mezzi che hanno già a disposizione. Per questo, oltre alla generica decisione europea di non vendere armi, sarebbe stato molto più efficace decidere esattamente cosa fare da parte di tutti, e soprattutto farlo mandando in parallelo altri messaggi politici.

Ci spieghi meglio.

Un embargo che riguardi le vendite militari può avere effetti solo se rivolto a un Paese che dipende quasi completamente dalle forniture estere, e non è il caso della Turchia per almeno due motivi. Primo, perché ha un’industria nazionale con una capacità di tutto rispetto. Secondo, perché gran parte di ciò che importa viene dagli Stati Uniti. Se non c’è l’embargo americano, dunque, qualsiasi altro embargo non potrà sortire effetti. Per questo credo che sarebbe stato meglio esercitare una pressione politico-militare, ad esempio attraverso il ritiro di personale attualmente dislocato volontariamente. È previsto il rientro della batteria di Samp/T per novembre. Anticiparlo di un mese sarebbe stato un segnale più forte. Il resto, un po’ come le misure che congelano determinati rapporti di collaborazione politica, ha poco impatto.

Con lo stop ai contratti futuri cambierà dunque poco sull’avanzata turca.

Non cambierà nulla. Le misure annunciate sono state intraprese da una parte per rispondere alle rispettive opinioni pubbliche, dall’altra per salvarsi l’anima e far finta di appoggiare il popolo curdo, cosa che invece non stiamo facendo.

Cambiando prospettiva, se è vero che la Turchia sta scivolando verso autoritarismo sempre più marcato, non vede il rischio interrompendo i rapporti di offrirle spunti in più per staccarsi dall’Occidente?

Temo che stiamo assistendo al combinato disposto tra l’atteggiamento confuso e contraddittorio dei Paesi europei, e la posizione ultra-nazionalista che Erdogan sta adottando, una posizione che lo porta su una deriva pericolosa per noi e per lui. Quando un Paese assume le caratteristiche di un regime autoritario, bisogna avere grande prudenza nei suoi confronti, poiché vengono meno le capacità di reazione intrinseche e autonome di un sistema democratico. Non essendoci un’opposizione interna, dobbiamo ragionare sul fatto che le azioni da poter esercitare nei suoi confronti sono molto più limitare. Ciò vale per la Turchia come per l’Egitto. Dobbiamo smetterla di pensare che possiamo avere gli stessi atteggiamenti che abbiamo con Paesi democratici.

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